Nel piano della salvezza, Dio sceglie sempre gli scomodi, gli inaccettabili, gli inattesi. Pensiamo ai pilastri del cristianesimo. Simon Pietro, il fedelissimo, è additato da Gesù come un Satana (Mt 16, 23), precipita nel triplice tradimento. Paolo, il fanatico di Tarso, era un fustigatore di cristiani, ha l'estro del neoconvertito: energumena energia, ira nell'amare, ferocia nel compatire. Pietro, la pietra, è un pescatore; Paolo, l'«aborto», il «neppur degno di essere chiamato apostolo» (1 Cor 15, 8; 9), è un guerriero. Il cristianesimo nasce così: tra falangi di fuggiaschi, tra gente messa in carcere, in un fiorire di lettere d'addio scritte ad amici e seguaci in ogni angolo del globo romano, da Corinto a Filippi, tra Tessalonica e Efeso. Il cristiano si realizza secondo il crudo addestramento della sequela Christi nell'irriconoscenza, quando viene ucciso da coloro a cui, gratuitamente, ha dato tutto.
Caravaggio, in Santa Maria del Popolo, ha sintetizzato con chiaroscurale veggenza i caratteri delle due luci di Cristo. Pietro, perennemente vecchio, è inchiodato alla croce rovesciata secondo il diktat evangelico del rinnegarsi, ormeggiandosi alla croce, alla caccia di Dio: Mt 16, 24 ; nel suo sguardo balena il dubbio. Paolo, al suolo, per sempre giovane, per sempre armato, fissa stupefatto il cielo, una luce lo falcia; il cavallo da cui è crollato, d'arcangelica intelligenza, ha paura. I due Cefa, il compagno di Gesù e Saulo, a cui Gesù fu rivelato per apparizione e per schianto avevano idee contrapposte di cristianesimo: Paolo sconcertava per audacia, voleva portare Cristo nel cuore filosofico (la Grecia) e politico (Roma) del suo tempo; agiva tra i pagani, con la carezza e con l'urlo; ambiva alla sfida.
Qualche anno fa pubblicai un libro costruito intorno a una apocrifa Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro. Non ne parlò quasi nessuno, è scrittura per palati forti. Il libro, tuttavia, attirò l'attenzione di S. E. Monsignor Luigi Negri, all'epoca arcivescovo di Ferrara-Comacchio. Incontrai Negri un paio di volte, discutemmo di cose di cui è bene tacere; qualche settimana dopo mi fece recapitare uno scritto, stimolato dalla lettura del libro. Scriveva che «mentre Pietro, e una certa parte della Chiesa degli inizi, tendeva sostanzialmente a legarsi all'esperienza giudaica, rischiando così di portare la Chiesa nascente al suo scioglimento nel giudaismo stesso, dall'altra Paolo richiamò vigorosamente a definire l'identità e il compito inderogabile della Chiesa: annunziare la redenzione in Cristo Gesù, presentandolo come l'unica possibilità di salvezza per l'uomo e per il mondo». San Paolo, continuava, dev'essere monito alla lotta senza risparmio; Negri terminò stigmatizzando alcune falangi ecclesiastiche: «Se apparentemente può sembrare che certe parti del mondo cattolico combattano il pensiero unico dominante, di fatto come in ogni tempo c'è chi si adopera, abbagliato dai miraggi mondani, ad una alleanza con esso». Non so se S. E. Cardinale Gianfranco Ravasi sia d'accordo con questa pur sommaria analisi: nella sua smagliante biografia di Paolo, Ero un blasfemo, un persecutore e un violento (Raffaello Cortina Editore, pagg. 210, euro 19), non sono certo negati i contrasti, spesso vivaci, tra l'apostolo e Pietro (riassunti nel cosiddetto «Concilio di Gerusalemme» narrato nel capitolo 15 degli Atti degli apostoli), che tutto sommato rientrano nel misterioso piano di Dio. Il mio amico Alessandro Deho', sacerdote che prega in luoghi impervi, autore di un recente, mirabile libello su Charles de Foucauld (A te. La preghiera dell'abbandono, San Paolo, pagg. 144, euro 14), insegna che bisogna liberarsi «dalla pericolosa tentazione di credere che due uomini si possano comprendere senza ombra di dubbio»; Babele, forse, non è il contrario di Eden ma il suo compimento.
Nel libro uno straordinario compendio per comprendere le lettere di Paolo, spesso ostili per eccesso di vertigine , Ravasi colloca l'apostolo al centro della tempesta occidentale: cita Nietzsche e Ernest Renan, Andrej Tarkovskij e André Gide, Giovanni Papini e Franz Werfel; ci ricorda che, secondo Antonio Gramsci, Paolo fu «il Lenin del cristianesimo». Il libro di Ravasi si apre con l'«abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo» di Pier Paolo Pasolini (lo trovate edito da Garzanti); io credo che miglior viatico sia la Traduzione della prima lettera ai Corinti di Giovanni Testori. Il linguaggio, slegato da madama filologia e dagli accademici madonnari, torna rituale, di tonante bellezza: «A confusione di chi sa,/ Cristo ha prescelto/ la derisa demenza;/ a confusione di chi può/ la debile inessenza./ Il privilegio ha dato/ agli incapaci,/ ai deietti,/ agli spregiati». Il testo, nell'edizione originaria, edita da Longanesi nel 1991 poi ripresa da SE, 2019 reca un'«Intervista con l'autore» nella quale Testori dice che Paolo, «per quanto ciò possa sembrare ingiurioso», è pari per potenza di verbo a Rimbaud. È un sovvertitore della grammatica dell'esistere, un ammutinato del linguaggio. Egli è il vero «uomo del sottosuolo» che non ci dà tregua, notte e giorno, contro cui dobbiamo pugnare per «levarmelo dai piedi» (Testori). Paolo è uno che ci prende per sfinimento, che ci tiene sotto assedio, che scandalizza: rivela il Cristo annientato («Essendo per natura Dio, non stimò un bene irrinunciabile l'essere uguale a Dio, ma annientò se stesso prendendo la natura di servo, diventando simile agli uomini», Fil 2, 6-7), la necessità della preghiera incessante, «senza interruzione», «il mistero dell'iniquità già in atto» (2 Tes 2, 7).
Harold Bloom, in un libro di inesausta sagacia, Il genio (in Italia stampa Rizzoli), installò San Paolo tra gli scrittori sapienti di ogni tempo, insieme all'autore della Torah, a Platone, a Maometto e più volgarmente a Goethe, Freud, Thomas Mann. In maniera meno trionfante, possiamo dire che le lettere di Paolo, insieme alle Confessioni di Agostino che di Paolo è l'erede , costituiscono il cardine del grande romanzo occidentale che trova il culmine in Dostoevskij. I fratelli Karamazov è libro impensabile senza la lettera ai Romani di Paolo; da Paolo, Dostoevskij mutua quel linguaggio esagitato e sanguigno, che procede per paradossi, abissi, folgoranti agnizioni. Un linguaggio che deturpa, un linguaggio-razzia.
Fate l'esperimento.
Quando scoprii San Paolo, oltre i bovini chiostri catechistici, avevo vent'anni. Lessi le lettere in un giorno, senza interruzione, con nottambula avidità. Ne uscii stordito. Avrei dovuto gettare quel libro fuori dalla finestra avrei dovuto gettarmi io.
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