Mi è stato chiesto un parere sul seguente quesito: “Se il d. lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 sia conferme alla Costituzione sotto il particolare profilo della sua applicazione con riferimento alla condanna, sopraggiunta il I agosto 2013, del Sen. Silvio Berlusconi per fatti di reato antecedenti alla sua entrata in vigore, anche ai fini della convalida dell'elezione al Senato del medesimo da parte della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari e del Senato della Repubblica”
INDICE: 1. Fatto; 2. La disciplina dell'incandidabilità nell'ordinamento italiano prima del d. lgs. 235/2012; 3. Novità introdotte dal d. lgs. 235/2012 con particolare riferimento alla condizione del parlamentare nazionale; 4. Incostituzionalità della disciplina se ritenuta applicabile all'incandidabilità conseguente ad accertamento di fatti posti in essere prima della sua entrata in vigore; 4.1. Questioni relative agli effetti della legge nel tempo; 4.1.1. Natura retroattiva della norma se interpretata come applicabile al caso in questione. Rilevanza dei fatti e non della sentenza di condanna ai fini della determinazione degli effetti nel tempo della legge.; 4.2 L'evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di retroattività. Attenuazione della rigida applicazione del principio di irretroattività alla sola fattispecie penale in senso stretto; 4.3. L'inquadramento dell'incandidabilità ai fini della valutazione della legittimità o meno dei suoi effetti retroattivi e la giurisprudenza della Corte costituzionale e della CEDU sulla qualificazione dei limiti all'elettorato passivo; 4.4. La giurisprudenza della CEDU sui limiti agli effetti retroattivi delle sanzioni; 4.4.1 Insufficienza della qualificazione nazionale per escludere l'applicabilità del divieto di sanzioni retroattive dell'art. 7 della CEDU; 4.4.2. I requisiti sostanziali per la qualificazione della fattispecie alla luce della giurisprudenza CEDU sul principio di irretroattività ex art. 7 della Convenzione; 4.4.3 La applicabilità del test CEDU al caso dell'incandidabilità ai sensi del d. lgs. 235 /2012; 4.4.4. Inconferenza della sentenza Pierre-Bloch c. Francia in tema di ineleggibilità; 4.4.5. Conclusioni: illegittimità del d. lgs. 235/2012 se interpretato retroattivamente. La possibilità di un'interpretazione costituzionalmente conforme che esclude l'applicabilità del d. lgs. 235/2012 al caso in esame; 5. Alcuni ulteriori vizi di legittimità del decreto legislativo per violazione del requisito della ragionevolezza e della proporzionalità in relazione all'artt. 2, 3 e 51 della Costituzione italiana e all'art. 3 del protocollo n.1 della CEDU; 5.1. Irragionevolezza nell'individuazione dei reati presupposti; 5.2. Irragionevolezza e sproporzione degli effetti dell'incandidabilità; 5.3. Irragionevolezza ed elusione della delega sotto il profilo del coordinamento con la disciplina delle pene accessorie e della determinazione della durata dell'incandidabilità; 6. Conclusioni
1. Fatto
Ai fini del presente parere si rende innanzitutto necessaria una breve ricostruzione in punto di fatto. In data I agosto 2013 la Corte di Cassazione, sezione feriale, pronunciava, mediante la sola lettura del relativo dispositivo, una sentenza nei confronti di Silvio Berlusconi, con la quale annullava la sentenza impugnata nei confronti di questi limitatamente alla statuizione relativa alla condanna alla pena accessoria dell'interdizione temporanea per anni cinque dai pubblici uffici, per violazione dell'art 12 comma 2, dlgs 10 marzo 2000, n. 74, disponendo la trasmissione degli atti ad altra sezione della corte di appello di Milano perché rideterminasse la pena accessoria nei limiti temporali fissati dal citato art. 12 ai sensi dell'art 133 c.p., valutazione non consentita alla corte di legittimità e rigettava nel resto il ricorso di Berlusconi nei cui confronti dichiarava, ai sensi dell'art 64, comma 2, c.p.p., irrevocabili tutte le altre parti della sentenza impugnata.
E' il caso di precisare che la predetta decisione veniva pronunziata con riferimento al reato di frode fiscale di cui agli art. 81 cpv, 110 c.p., 4 lett f) l. 516/82 in relazione all'art. 2 d. lgs. 74/2000 con riferimento a fatti risalenti ad epoca antecedente l'entrata in vigore del d. lgs. 235/2012, cui si riferisce il quesito da cui origina il presente parere.
Conseguentemente alla decisione dell Suprema Corte di Cassazione, il pubblico ministero competente trasmetteva, ai sensi dell'art. 3, comma 2, del d. lgl 235/2012 la comunicazione della sentenza definitiva di condanna al Senato della Repubblica per le determinazioni di competenza.
2. La disciplina dell'incandidabilità nell'ordinamento italiano prima del d. lgs. 235/2012
Com'è noto l'istituto dell'incandidabilità è stato introdotto esplicitamente nel nostro ordinamento dalla legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali). Ad essa sono seguiti numerosi interventi correttivi e modificativi anche alla luce di pronunciamenti della Corte costituzionale.
Si tratta dunque di un quadro normativo frammentario e in costante movimento al quale il legislatore ha ritenuto di dover sostituire una disciplina più organica.
3. Novità introdotte dal d. lgs. 235/2012 con particolare riferimento alla condizione del parlamentare nazionale Anche per le ragioni anzidette il legislatore con legge 6 novembre 2012, n. 190, recante Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalita' nella pubblica amministrazione è intervenuto sulla materia delegando il governo ad emanare un testo unico non meramente compilativo della normativa in materia di incandidabilita' “alla carica di membro del Parlamento europeo, di deputato e di senatore della Repubblica, di incandidabilita' alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e di divieto di ricoprire le cariche di presidente e di componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, di presidente e di componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, di consigliere di amministrazione e di presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all'articolo 114 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n.267, e successive modificazioni, di presidente e di componente degli organi esecutivi delle comunita' montane” (art. 1 comma 63, l. 190/2012).
In attuazione di tale delega (i cui principi e criteri direttivi sono stati previsti al comma 64 dell'art. 1 della l. 190/2012) il governo ha emanato il d. lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, recante Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190.
Tale disciplina, per quanto qui interessa, si compone di tre blocchi normativi distinti avendo riguardo alle cariche di riferimento. Un primo blocco (capo I e II) riguarda i membri del Parlamento nazionale, quelli del Parlamento europeo spettanti all'Italia e le cariche di Governo (il Presidente del Consiglio dei ministri, i Ministri, i Vice Ministri, i sottosegretari di Stato e i commissari straordinari del Governo di cui all'articolo 11 della legge 23 agosto 1988, n. 400). Gli altri due riguardano, rispettivamente cariche regionali e presso gli enti locali.
Quanto alla trama normativa, pur restando per lo più formalmente distinta con riferimento a tali diversi gruppi, il testo unico prevede - in forza di richiami interni o di identità oggettiva di fattispecie regolate – un certo numero di elementi in comune.
Per tutti è ad esempio previsto che l'incandidabilità operi e produca i propri effetti ex lege prima dell'assunzione della carica, precludendo in concreto l'assunzione della stessa, nonché che essa, qualora determinatasi successivamente alla proclamazione, produca la mancata convalida o la decadenza dalla stessa. Ugualmente, la sentenza definitiva su certe categorie di reato, tra cui ad es. rientra quella relativa alla fattispecie di cui ci si occupa in questa sede, producono l'incandidabilità rispetto a tutte queste cariche considerate nel testo unico.
Senza necessità di indulgere sui profili descrittivi, ampiamente conosciuti e che verranno richiamati all'occorrenza, si ritiene necessario, però, in avvio, mettere in evidenza il fatto che ci si trova di fronte ad una disciplina la quale presenta indubbi e rilevantissimi elementi di novità, significativi proprio con riferimento al caso in questione.
Si tratta infatti della prima disciplina nella storia repubblicana che introduce la fattispecie dell'incandidabilità con riferimento ad alcune cariche e, in particolare, per quanto qui interessa, a quella di parlamentare nazionale. V'è da aggiungere che la recentissima entrata in vigore fa sì che non vi sia alcun tipo di precedente applicativo con riferimento a un parlamentare, né, per conseguenza, nessun precedente giurisdizionale. Allo stesso modo risulta del tutto inedita l'ampiezza (almeno con riferimento ad alcune fattispecie di reato) degli effetti inibitori all'assunzione di cariche pubbliche. Ampiezza che finisce per coincidere con qualsiasi pubblico ufficio di carattere politico.
4. Incostituzionalità della disciplina se ritenuta applicabile all'incandidabilità conseguente ad accertamento di fatti posti in essere prima della sua entrata in vigore.
Dall'esame della disciplina nella limitata prospettiva del richiesto parere, peraltro, risulta più di un dubbio di legittimità costituzionale della stessa.
Il primo e più rilevante di tale profili è quello che riguarda l'interpretazione secondo cui la nuova disciplina dell'incandidabilità dei parlamentari sarebbe applicabile anche in conseguenza di sentenze che accertano fatti compiuti prima dell'entrata in vigore della stessa.
Un tale esito interpretativo – come si vedrà non necessariamente obbligato (vedi infra par. 4.4.5.) sembrerebbe potersi fondare sul tenore letterale dell'art. 1, comma 64, lett. m) della l. 190/2012, cui hanno dato attuazione – per quanto qui interessa - gli artt. 1 e 3 del d. lgs. 235/2012.
La disposizione della legge di delega in particolare, richiede al Governo di “disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all'affidamento della carica“ L'art. 1 del decreto legislativo delegato condiziona, a sua volta, l'insorgere della fattispecie dell'incandidabilità all'avere l'interessato riportato “condanne” per taluni reati ivi richiamati alle lett. a), b) e c), mentre l'art. 3, a proposito dell'insorgere dell'incandidabilità in corso di mandato, stabilisce che “le sentenze definitive di condanna di cui all'articolo 1, emesse nei confronti di deputati o senatori in carica, sono immediatamente comunicate, a cura del pubblico ministero presso il giudice indicato nell'articolo 665 del codice di procedura penale, alla Camera di rispettiva appartenenza”.
Si potrebbe pertanto ritenere che per l'avverarsi della causa di incandidabilità sia sufficiente l'emanazione di una sentenza definitiva di condanna, indipendentemente dal momento in cui fatti in base alla quale essa è stata pronunciata siano avvenuti ed anche se precedenti all'entrata in vigore del decreto legislativo in oggetto.
Confermerebbe questa conclusione l'art. 16 del medesimo decreto legislativo (contenente le disposizioni transitorie e finali), a termini del cui primo comma “Per le incandidabilita' di cui ai Capi I e II, e per quelle di cui ai Capi III e IV non gia' rinvenibili nella disciplina previgente, la disposizione del comma 1 dell'articolo 15 si applica alle sentenze previste dall'articolo 444 del codice di procedura penale pronunciate successivamente alla data di entrata in vigore del presente testo unico.”
Ed è infatti proprio in forza di tale disposizione che il Consiglio di Stato (sez. V, sent. 695/2013, Miniscalco) ha ritenuto, applicando il canone dell'interpretazione a contrario, che la legge sarebbe applicabile, in parte qua, a tutte le sentenze precedenti all'entrata in vigore del decreto legislativo diverse da quella di cui all'art. 444 cpp. E' evidente, dunque, che se si ammettesse che la prescritta disciplina possa avere applicazione anche con riferimento a sentenze emesse in precedenza alla sua entrata in vigore, per necessità logica si dovrebbe ritenere che si applichi con riferimento a fatti venuti anch'essi in essere in precedenza (in quanto necessariamente anteriori alla sentenza che definitivamente li accerta).
4.1. Questioni relative agli effetti della legge nel tempo
E' evidente, dunque, la crucialità dell'accertamento sulla natura o meno retroattiva della disciplina. Qualora infatti si dimostrasse che si tratta di una disciplina retroattiva e dunque applicabile al caso di specie, si tratterebbe, allora, di verificare ulteriormente se, alla luce delle norme e dei principi in materia di effetti della legge nel tempo (art. 11 preleggi, art. 3 e 25 Cost., art. 7 Cedu, ecc.), quella previsione di retroattività sia legittima o meno. Le due questioni (indagine sulla retroattività e legittimità della medesima una volta riconosciuta come tale) sono logicamente distinte e, per necessità di rigore analitico, vanno tenute distinte. Ben può essere, ad esempio, che la previsione dell'incandidabilità sia contenuta in una norma penale, ma non sia retroattiva (e non violi dunque il canone dell'art. 25, comma 2 Cost.), ovvero che la norma in questione sia bensì retroattiva, ma non sia riconducibile al novero di quelle per le quali l'ordinamento costituzionale e CEDU vietano l'irretroattività.
4.1.1. Natura retroattiva della norma se interpretata come applicabile al caso in questione. Rilevanza dei fatti e non della sentenza di condanna ai fini della determinazione degli effetti nel tempo della legge.
In disparte, dunque, per il momento il problema della legittimità di una eventuale applicazione retroattiva della disciplina in questione, è utile in via preliminare concentrarsi sul profilo del rapporto tra fatti di reato precedenti e successiva normazione sull'incandidabilità.
A questo proposito si è ritenuto da parte della dottrina che non ci si trovi in questa circostanza in un caso di retroattività. E in questo stesso senso si è pronunziata, con riferimento ad altre fattispecie di incandidabilità previste dal testo unico, la richiamata sentenza del Consiglio di Stato nel caso Miniscalco, a mente della quale “l'applicazione della richiamata disciplina ai procedimenti elettorali successivi alla sua entrata in vigore, pur se con riferimento a requisiti soggettivi collegati a fatti storici precedenti, non dà la stura ad una situazione di retroattività, ma costituisce applicazione del principio generale tempus regit actum che impone, in assenza di deroghe, l'applicazione della disciplina sostanziale vigente al momento dell'esercizio del potere amministrativo” ( Consiglio di Stato sez. V, sent. 695/2013, punto 3.1.).
Una tale interpretazione però non convince.
La nozione di retroattività, secondo l'insegnamento dottrinale e giurisprudenziale più convincente, consiste nella circostanza che l'ordinamento giuridico oggi riconduce a fatti del passato conseguenze ed effetti diversi rispetto a quelli che se ne potevano dedurre sulla base del diritto vigente nel momento in cui si verificarono. Cosicché ad un certo fatto del passato non si applica interamente il regime normativo allora previsto, ma, in parte o in tutto, quanto previsto dalla nuova legge, che dunque viene applicata “in relazione a rapporti sorti nel passato (C. Cost. 118 del 1957, punto 2 del considerato in diritto).
Nel compiere tale diversa qualificazione dei fatti del passato l'ordinamento fa sorgere conseguenze ed effetti nuovi dalla fattispecie originaria (in dottrina, per tutti G. PACE, Il diritto transitorio, Milano, 1944, 135 e più in generale ed esaustivamente sul tema, con ampio corredo biografico, R. Caponi, La nozione di retroattività della legge, in Giur. cost. 1990, p. 1332 ss.).
Del resto questa ricostruzione del fenomeno della retroattività appare confermata dalla Corte costituzionale allorché la definisce come la situazione in cui una legge incide “su posizioni costituite in vista di una situazione giuridica, mutata poi in forza della disposizione impugnata” (Corte. Cost., sent. 194/1976, punto 10 del considerato in diritto), mettendone in evidenza anche la ratio ispiratrice delle sue possibili limitazioni (“la garanzia della certezza dei rapporti giuridici uno dei cardini della tranquillità sociale e del vivere civile”, ivi).
Si tratta esattamente del fenomeno che, ad es., l'art. 25 Cost., vuole scongiurare con riferimento alle norme penali incriminatrici. Cos'è che si vuole evitare in quel caso? Che un certo comportamento passato, all'epoca penalmente lecito (dal compimento del quale cioè non si poteva trarre la conseguenza di applicare una sanzione penale), possa oggi essere retrospettivamente “ri-qualificato” dall'ordinamento, così ricavarne “ora per allora” la conseguenza dell'applicabilità della sanzione penale.
Lo stesso schema è applicabile al caso del d. lgs. 235/2012. Esso ha infatti “rivalutato” comportamenti del passato, traendo da essi conseguenze diverse da quelle che se ne potevano trarre all'epoca sulla base delle norme vigenti.
Infatti, mentre per certi fatti (quelli relativi ai reati di cui all'art. 1 del decreto), all'epoca della loro commissione la conseguenza (per quanto qui interessa) tratta dall'ordinamento di allora era quella di legittimare l'applicazione della sanzione della pena principale e (eventualmente) di quella accessoria, oggi, a seguito di un'applicazione “retroattiva”, da quegli stessi fatti storici si trae un'ulteriore conseguenza: l’applicazione di una limitazione al diritto di elettorato passivo. Semplificando: all’epoca le conseguenze previste erano una o due (pena principale e eventualmente pena accessoria), oggi le conseguenze giuridiche di quello stesso fatto sono tre (le prime due più, adesso, incandidabilità).
Questa ricostruzione può trovare conferma anche assumendo le premesse da cui muove il Consiglio di Stato .
Il supremo giudice amministrativo (richiamando anche risalenti precedenti di giurisprudenza costituzionale, tra cui la sent. 118/1994, che però affrontavano solo incidentalmente il tema della retroattività; su tali precedenti vedi infra nei successivi paragrafi del presente parere) si muove nella prospettiva che in questo caso non sia in questione una norma retroattiva, ma una norma che stabilisce oggi i requisiti soggettivi per l'accesso ai pubblici uffici in futuro. La conseguenza sarebbe che, poiché tra i requisiti vi è quello di “non essere condannato”, chi si trovi oggi nella situazione giuridica di “condannato” dev'essere escluso, senza che la norma retroagisca in alcun modo.
Queste conclusioni non convincono. Le norme che definiscono requisiti, allorché il possesso di uno di essi dipenda da fatti del passato dai quali l'ordinamento all'epoca non faceva nascere come conseguenza l'attribuzione o il riconoscimento di quel requisito, sono anch'essi, in parte qua, retroattivi. Le norme, cioè, valutano un fatto del passato come foriero di conseguenze (il vedersi riconosciuto o meno un certo requisito) non previste all'epoca.
Il discorso appare ancora più chiaro se si considera il caso dell'incandidabilità e delle altre norme sull'elettorato passivo. In queste ipotesi infatti, a ben vedere, non si tratta della definizione di nuovi “requisiti” positivamente attribuiti dalla legge (o dal decreto legislativo), ma di limitazioni all'applicazione dei requisiti generali che la Costituzione riconosce e che preesistevano.
E’ questa – va evidenziato – una differenza fondamentale tra la carica di parlamentare e quella di altri titolari di pubblici uffici. Nel caso in esame non è la legge che, ma la Costituzione che fissa i requisiti soggettivi (art. 48, 56, comma 3, 58, comma 2, abilitando la legge – peraltro non liberamente - a definire solo dei limiti a quei requisiti riconosciuti direttamente in Costituzione.
La legge nuova insomma non attribuisce un diritto, una facoltà o un potere che prima non c'erano, ma toglie qualcosa, pone dei nuovi limiti (non a caso spesso in dottrina a proposito delle cause di ineleggibilità si parla di “requisiti negativi” per l'esercizio del diritto di elettorato; il che, com'è evidente, conferma che si tratti di limiti). Se ciò è vero, appare abbastanza evidente che far dipendere l'operare o meno di una limitazione dell’elettorato passivo da fatti del passato (l'aver commesso o meno un reato) costituisce una applicazione retroattiva, in quanto la legge viene applicata “in relazione a rapporti sorti nel passato” (C. Cost. 118 del 1957, cit.).
Il fatto di reato di allora, alla luce della nuova legge, produce, oltre agli effetti già penalmente previsti, anche l'ulteriore effetto (allora non previsto) di rendere automaticamente incandidabile chi l'abbia commesso.
L'incandidabilità insomma (comunque la si qualifichi: requisito negativo o limitazione) in tanto può essere applicata, in quanto sia effetto diretto di quei fatti e comportamenti (e di cui, invece, all'epoca, non poteva essere effetto, perchè il diritto allora vigente non lo prevedeva).
Dal punto di vista della problematica della retroattività insomma, la prospettiva dell'inquadramento dell'incandidabilità come mero requisito di eleggibilità rischia di essere fuorviante. Tant'è che difficilmente potrebbe negarsi la natura retroattiva della previsione se, anziché come requisito, lo si considerasse come “sanzione” (ciò che la stessa Corte costituzionale ha fatto nella sent. 141 del 1996, successiva peraltro alla sent. 118/1994, allorché dichiarò incostituzionali le norme della l. 55/90 che prevedevano l'incandidabilità come mera conseguenza di un rinvio a giudizio in quanto in tal caso l' ”ineleggibilità [avrebbe assunto] i caratteri di una sanzione anticipata” (evid. non testuale)).
La conclusione testé raggiunta non può revocarsi in dubbio ritenendo che in realtà (in disparte, al momento, la menzionata ipotesi di cui all'art. 16, su cui si tornerà al par. 4.4.5) la conseguenza dell'incandidabilità derivi dalla “situazione oggettiva” determinatasi con la sentenza di condanna intervenuta successivamente alla sua entrata in vigore. La sentenza di condanna, infatti, non è un evento naturalistico estraneo ai fatti di reato, ma è invece la modalità con la quale quei fatti sono accertati; è lo strumento attraverso il quale l'ordinamento riconosce la certezza (processuale) di quei fatti. Detto in altri termini, in tanto è logico, ammissibile e tollerabile, che la legge riconduca ad una sentenza la conseguenza sfavorevole dell'incandidabilità per un certo soggetto, in quanto la sentenza serva proprio ad imputare a quel soggetto i fatti, il cui disvalore sociale e la cui gravità costituisce la ratio ispiratrice e giustificatrice della normativa che limita l'elettorato passivo.
Non è d'altronde un caso se autorevole dottrina ha riconosciuto che il concetto di retroattività è chiamato in questione anche con riferimento a eventi successivi all'entrata in vigore della legge (nel nostro caso la sentenza) ma comunque connessi ai fatti precedenti, affermando che può escludersi la retroattività solo se la legge “possa essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi […] debbano essere presi in considerazione in se stessi prescindendo totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati” (G. CIAN, A. TRABUCCHI, Commentario breve al codice civile, CEDAM, 2011, pag. 26 e ss., corsivo non testuale e nello stesso senso R. Caponi, La nozione di retroattività, cit. passim ai parr. 3 e 4).
E’ evidente che, nella nostra prospettiva, è difficile – se non assurdo - affermare che la sentenza di condanna “prescinda totalmente dal collegamento” con i fatti di reato. Anche perchè, recidere completamente il legame tra conseguenze della sentenza di condanna e fatti di reato sulla base dei quali essa è stata emessa, imporrebbe di ritenere che la conseguenza (certamente sfavorevole e limitativa) della incandidabilità (o, se si vuole, la perdita del requisito della candidabilità) si imponga al cittadino condannato non in conseguenza dei fatti a lui imputabili, ma a titolo di responsabilità oggettiva (per l'evento della sentenza) o addirittura di fatto (lecito) dell'organo giudicante. Il che sarebbe palesemente illogico, abnorme e aberrante. Un esempio riferito ad un'ipotetica sanzione penale può rendere più vividamente le aporie della conclusione opposta.
Si immagini infatti il caso ipotetico di Tizio, datore di lavoro, il quale si renda responsabile di inadempimento contrattuale non versando la retribuzione al lavoratore per un cospicuo numero di mesi e che venga per questo citato in giudizio dal lavoratore stesso. Immaginiamo che, nelle more del giudizio, venga introdotta una legge che, per tutelare il lavoratore in quanto soggetto debole, introduca una fattispecie di reato per coloro che siano “condannati con sentenza definitiva” per prolungato inadempimento dell'obbligazione contrattuale nei confronti del lavoratore (com'è noto non mancano né sono mancate nel nostro ordinamento forme di “penalizzazione” di illeciti “civili” del datore di lavoro). E immaginiamo ancora che la sentenza definitiva di condanna civile di Tizio venga in essere successivamente all'entrata in vigore della legge incriminatrice.
Come può dubitarsi che la legge che introducesse un tale reato di inadempimento contrattuale non sia retroattiva (e in quanto penale anche illegittima), ma sia solo l'”applicazione attuale di una disciplina sostanziale oggi vigente”?
E, infatti, in questo stesso senso, e a chiarire definitivamente tale questione, si può citare l’ormai costante giurisprudenza amministrativa a proposito del difetto di requisiti per l’ottenimento del permesso di soggiorno dei cittadini non comunitari. Per i quali i giuridici amministrativi hanno negato costituisse una legittima ipotesi di diniego del permesso di soggiorno (e dunque per difetto dei requisiti abilitanti ai fini della concessione del medesimo) quella basata su sentenze di condanna emesse successivamente alla emanazione della normativa abilitante il diniego, ma per fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della stessa (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16 febbraio 2010, n. 859; sez. V 2 aprile 2010, n. 1894 e n. 1888, stessa data, e 16 febbraio 2010, n. 859, nonché da ultimo Tar Lazio, sez. II quater, 7 marzo 2012, n. 2299).
Afferma infatti il Consiglio di Stato, nella decisione n. 859/2010:
“tale disposizione è stata introdotta dalla l. 30 luglio 2002, n. 189, e, considerate le gravi conseguenze che essa comporta, deve essere interpretata come applicabile, ratione temporis, solo ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore; pertanto, in caso di condanna penale successiva all’entrata in vigore di tale disposizione, occorre avere riguardo alla data del commesso reato, potendosi applicare l’automatismo espulsivo solo nel caso in cui anche il reato, e non solo la condanna, siano successivi alla data di entrata in vigore suddetta (in termini Cons. St., sez. VI, 7 aprile 2009 n. 1791, ord.; evid. aggiunta).
4.2 L'evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di retroattività. Attenuazione della rigida applicazione del principio di irretroattività alla sola fattispecie penale in senso stretto Come si è anticipato, dimostrare che una norma sia retroattiva non significa necessariamente affermare che tale retroattività sia illegittima.
Dunque, una volta acclarata la conclusione che l'interpretazione secondo cui il d. lgs. 235/2012 sia applicabile anche alle condanne per fatti precedenti alla sua entrata in vigore costituisce un'applicazione retroattiva della medesima, si tratta di valutare se tale applicazione retroattiva sia conforme (nella fattispecie Costituzione e CEDU) ai parametri al cui rispetto è astretta una legge ordinaria.
E' noto che la nostra Corte costituzionale ha, fin dall'origine negato, al principio di irretroattività sancito dall'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, valore costituzionale, ricordando che l'unica ipotesi di chiara costituzionalizzazione è quella di cui all'art. 25 Cost. per ciò che attiene alle norme penali incriminatrici.
E' pur vero però che il giudice delle leggi non ha escluso mai del tutto la possibilità che leggi non penali possano essere dichiarate incostituzionali a causa della propria irretroattività.
Si veda ad esempio quanto affermato già nella sent. 118 del 1957 (punto 2 del considerato in diritto) “Il principio generale della irretroattività delle leggi - attualmente enunciato nell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale - rappresenta un'antica conquista della nostra civiltà giuridica. Esso però non è mai assurto nel nostro ordinamento alla dignità di norma costituzionale; né vi è stato elevato dalla vigente Costituzione, se non per la materia penale (vano è appellarsi in contrario - come fa taluna delle ordinanze di rimessione - a precetti, quali gli artt. 136 e 75 Cost., che hanno tutt'altro oggetto, e perciò non appaiono in alcun modo incompatibili con l'emanazione di leggi retroattive). Per le materie diverse da quella penale, l'osservanza del tradizionale principio è dunque rimessa - così come in passato - alla prudente valutazione del legislatore, il quale peraltro - salvo estrema necessità - dovrebbe a esso attenersi, essendo, sia nel diritto pubblico che in quello privato, la certezza dei rapporti preferiti (anche se non definiti in via di giudicato, transazione, ecc.) uno dei cardini della tranquillità sociale e del vivere civile”.
Con ciò non si vuole escludere che in singole materie, anche fuori di quella penale, l'emanazione di una legge retroattiva possa rivelarsi in contrasto con qualche specifico precetto costituzionale” (corsivo non testuale).
Ed in effetti, successivamente la Corte, soprattutto nella propria giurisprudenza in materia di norme di interpretazione autentica e di norme provvedimento ha riconosciuto l'esistenza di limiti al potere del legislatore di derogare al principio della irretroattività.
Ciò è innanzitutto avvenuto con riferimento all'art. 3 cost. e al principio di ragionevolezza. Cosicchè si è ritenuto che norme retroattive siano legittime “purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti. Ed è, quindi, proprio sotto l'aspetto del controllo di ragionevolezza che rilevano, simmetricamente, la funzione di interpretazione autentica, che una disposizione sia in ipotesi chiamata a svolgere, ovvero l'idoneità di una disposizione innovativa a disciplinare con efficacia retroattiva anche situazioni pregresse in deroga al principio per cui la legge non dispone che per l'avvenire “ (così sentt. 274 del 2006 e 234/2007, punto 9 del considerato in diritto, corsivo aggiunto).
Questo processo di espansione del sindacato sulla retroattività delle norme ha poi incrociato una tendenza della giurisprudenza a sfumare la rigidità dell'applicazione dell'art. 25, fino a “sconfinare” dai limiti della materia penale e orientarsi verso interpretazioni più “sostanzialistiche”.
La Corte ha ad esempio affermato il principio di “legalità della pena, ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione, in base al quale é necessario che sia la legge a configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire” (sent. 78 del 1967).
Un ulteriore impulso evolutivo si è poi determinato a seguito dell'approvazione della riforma costituzionale del 2001 e della modifica dell'art. 117, comma 1, della Costituzione sulla base del quale si è imposto al legislatore il rispetto degli obblighi internazionali e, dunque, in particolare, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Con la conseguenza che il rispetto di tali norme è stato attratto, mediante lo schema della norma interposta, nel parametro di legittimità il cui rispetto è assicurato da parte della Corte costituzionale (cfr. Corte cost. sentt. 348 e 349/2007).
A seguito di tale innovazione normativa la Corte costituzionale ha inasprito il proprio controllo sul rispetto del principio di irretroattività, cui gli art. 5, 6 e 7 della CEDU assegnano una particolare cogenza.
E' così accaduto che la Corte costituzionale abbia riconosciuto l'illegittimità della retroattività di norme sanzionatorie di natura amministrativa emanate a seguito di depenalizzazione (anche in considerazione del principio generale di cui all'art. 1 della l. 689/1981).
Fondamentale in materia, ad es., la sentenza 196/2010, sia perchè ha dichiarato l'incostituzionalità di una norma sanzionatoria di carattere amministrativo nella sua applicazione retroattiva, sia per la motivazione addotta, la quale consacra un approccio “sostanzialistico” al tema delle sanzioni e della loro retroattività:
“3.1.4. Una preoccupazione analoga – e cioè quella di evitare che singole scelte compiute da taluni degli Stati aderenti alla CEDU, nell’escludere che un determinato illecito ovvero una determinata sanzione o misura restrittiva appartengano all’ambito penale, possano determinare un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale – è, del resto, alla base dell’indirizzo interpretativo che ha portato la Corte di Strasburgo all’elaborazione di propri criteri, in aggiunta a quello della qualificazione giuridico-formale attribuita nel diritto nazionale, al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione.
In particolare, la Corte europea ha attribuito alternativamente rilievo, a tal fine, o alla natura stessa dell’illecito – da determinare, a propria volta, sulla base di due sottocriteri, costituiti dall’ambito di applicazione della norma che lo preveda e dallo scopo della sanzione – ovvero alla gravità, o meglio al grado di severità, della sanzione irrogata.
3.1.5.— Dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto.
Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito…») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato.
D’altronde, questa Corte non solo ha affermato che, per le misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto, sussiste «l’esigenza della prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non applicazione) di esse» (sentenza n. 447 del 1988), ma anche precisato come la necessità «che sia la legge a configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire» risulti pur sempre «ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione» (sentenza n. 78 del 1967, evid. aggiunta).
A ciò è da aggiungere che anche la disciplina generale relativa agli illeciti amministrativi depenalizzati – recata dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – ha stabilito che «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione» (art. 1, primo comma), dettando, così, una regola che si pone come principio generale di quello specifico sistema” (C. Cost. Sent. 196/2010, punti 3.1.4 e 3.1.5 del considerato in diritto).
Tale orientamento è stato poi esteso anche alla materia civile. Peraltro, in tale ambito, la Corte costituzionale era già intervenuta prima del 2001, compiendo alcune affermazioni di principio e suffragandole con il riferimento (non formalmente vincolante all'epoca il legislatore) alla CEDU.
Nella sent. 202 del 1991, al punto 4 del considerato in diritto la Corte ha infatti affermato – a proposito dell'applicazione retroattiva di un divieto per la violazione del quale era sorta un'azione di responsabilità civile per il risarcimento dei danni – che “anche la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (artt. 5, 6, 7) è interpretata nel senso che, per la rilevanza delle trasgressioni dei doveri generali sanciti da una disposizione di legge, occorre, per il comportamento giuridicamente corretto, la conoscibilità di essa al momento del fatto”.
In quell'occasione poi la Corte ha formulato una considerazione ancor più generale, suscettibile di trovare applicazione anche nel caso oggetto del presente parere. Essa ha infatti affermato – a chiusura del ragionamento - che “Il cittadino deve conoscere quale sia il comportamento che la norma richiede, specie se si tratta di limitazione ad un diritto di libertà” (ivi, evid. aggiunta).
Quanto poi alla giurisprudenza costituzionale successiva al 2001, si deve ricordare che la Corte costituzionale ha riconosciuto il proprio obbligo di conformarsi alla giurisprudenza CEDU in materia di retroattività anche nell'ambito dell'ordinamento civile, nella misura e nei limiti in cui la convenzione assicura contro forme illegittime di retroattività.
In particolare nella sent. 311/2009 (punto 9 del considerato in diritto) il giudice delle leggi ha affermato che “Deve infatti escludersi l’esistenza di un principio secondo cui la necessaria incidenza delle norme retroattive sui procedimenti in corso si porrebbe automaticamente in contrasto con la Convenzione europea, come peraltro riconosciuto da una parte della giurisprudenza di legittimità (Cass. 16 gennaio 2008 n. 677)”.
Concludendo in quella circostanza che
“Dal confronto fra i principi espressi dalla Corte europea e le condizioni e finalità dell’art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, emerge come il legislatore nazionale non abbia travalicato i limiti fissati dalla Convenzione europea” (ivi)
in quanto, tra l'altro, nella fattispecie
“La vicenda normativa in esame (...) non determina una reformatio in malam partem di una situazione patrimoniale in precedenza acquisita” (ivi).
4.3. L'inquadramento dell'incandidabilità ai fini della valutazione della legittimità o meno dei suoi effetti retroattivi e la giurisprudenza della Corte costituzionale e della CEDU sulla qualificazione dei limiti all'elettorato passivo.
Da queste premesse – e con riserva di esaminare subito dopo la rilevante giurisprudenza CEDU – risulta evidente che la questione dell'inquadramento formale dell'incandidabilità quale sanzione penale non appare decisivo ai fini di escludere l'illegittimità degli effetti retroattivi della disciplina che lo prevede.
Né, va aggiunto, appare decisivo quanto affermato dalla Corte costituzionale in alcune risalenti sentenze in ordine alla natura “non sanzionatoria” della fattispecie di incandidabilità.
Nella sentenza 132/2001 (al punto 2 del considerato in diritto) a proposito delle fattispecie di “incandidabilità” previste dall'art. 15 della legge n. 55 del 1990, e successive modificazioni, si legge:
“Esse [le fattispecie di incandidabilità] non rappresentano un aspetto del trattamento sanzionatorio penale derivante dalla commissione del reato, e nemmeno una autonoma sanzione collegata al reato medesimo, ma piuttosto l'espressione del venir meno di un requisito soggettivo per l'accesso alle cariche considerate (cfr. sentenze nn. 118 e 295 del 1994), stabilito, nell'esercizio della sua discrezionalità, dal legislatore, al quale l'art. 51, primo comma, della Costituzione, demanda appunto il potere di fissare "i requisiti" in base ai quali i cittadini possono accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza.”
Ora non v'è dubbio che una tale affermazione sembrerebbe tagliar fuori tale ipotesi anche da un approccio sostanzialista al concetto di sanzione. Ad un maggior approfondimento però la conclusione non appare affatto scontata e va anzi radicalmente rovesciata.
Innanzitutto è dato riscontrare nella giurisprudenza costituzionale anche accenni in senso diverso. Ad esempio, come ricordato, nella sent. 141 del 1996, la quale dichiarò incostituzionali le norme della l. 55/90 che prevedevano l'incandidabilità come mera conseguenza di un rinvio a giudizio (e non di un accertamento con sentenza definitiva), la Corte ebbe a precisare che
“La sancita ineleggibilità assume i caratteri di una sanzione anticipata, mancando una sentenza di condanna irrevocabile e, nel caso di semplice rinvio a giudizio, addirittura prima che il contenuto dell'accusa sia sottoposto alla verifica dibattimentale;” (punto 4 del considerato in diritto, evid. aggiunta).
Il che avvalora la tesi che, quale che ne sia la qualificazione formale (requisito soggettivo o limite), non sfuggisse nemmeno alla Corte costituzionale la natura sostanzialmente sanzionatoria della misura (almeno sotto il profilo dell'effetto limitativo del diritto).
Non va poi dimenticato che, proprio per i rilevanti effetti che essa ha sui profili della legittimità costituzionale delle norme (retroattive) che la prevedono, la qualificazione in termini o meno di sanzione deve essere oggi coordinata con tutti gli elementi normativi che incidono sulla ricostruzione della fattispecie e, in particolare, dev'essere coordinata con quanto previsto dalla CEDU e dalla relativa giurisprudenza in termini di qualificazioni, da valutare - – come si è già accennato e come si preciserà ulteriormente – in termini sostanziali e non meramente formali. Nè può dimenticarsi che tale approccio “sostanzialista” si impone, come ricordato in altra occasione dalla Corte costituzionale, nella citata sent. 196/2010, per
“Evitare che singole scelte compiute da taluni degli Stati aderenti alla CEDU, nell’escludere che un determinato illecito ovvero una determinata sanzione o misura restrittiva appartengano all’ambito penale, possano determinare un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale” (punto 3.1.4 del considerato in diritto)
Va, peraltro, considerato che la citata giurisprudenza costituzionale che esclude la natura sanzionatoria dell'incandidabilità risale ad un periodo antecedente all'entrata in vigore della modifica costituzionale che ha reso cogente per il legislatore (e di doverosa applicazione per la Corte costituzionale nel controllo sulle leggi) il rispetto della CEDU nell'interpretazione che di essa fornisce la Corte europea (sul punto tra le altre cfr. C. cost. 311 del 2009).
A tal proposito, venendo ora alla giurisprudenza CEDU, non appare dubbio che anche le limitiazioni dell'elettorato passivo (non rileva in questa sede quale che ne sia l'origine, se cioè come conseguenza di sentenza penale o per altre previsioni legislative) si atteggino, se conseguenti alla commissione di un illecito giudizialmente accertato, a vere e proprie “sanzioni”.
In particolare, nella sentenza 21 ottobre 1997, causa Pierre Bloch c. Francia (parr. 55 e 56) – su cui si tornerà successivamente sotto altri profili – la Corte europea - chiamata a giudicare dell'applicabilità dell'art. 6 della Convenzione al caso di un cittadino che il Conseil Constitutionnel aveva privato dell'elettorato passivo per un anno a seguito dell'accertamento di una violazione dei limiti legislativi alle spese elettorali – non esita a qualificare la limitazione del diritto ad accedere all'ufficio parlamentare nei termini di una vera e propria sanzione (“penalty”, nella versione inglese e “sanction” nella versione francese), pur escludendo in quel caso – come si vedrà – che si sia in presenza di una sanzione penale ai sensi della Convenzione.
4.4. La giurisprudenza della CEDU sui limiti agli effetti retroattivi delle sanzioni.
Alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo si pone – pertanto - il problema di verificare se la fattispecie qui in esame non ricada sotto la scure del divieto di retroattività delle sanzioni così come previsto dalla Convenzione europea. Vengono a tal proposito in rilievo gli artt. 6 e 7 della Convenzione.
Cominciando, per ragioni logiche, dall'art. 7, esso stabilisce il principio di irretroattività, affermando, al suo primo comma che:
“No one shall be held guilty of any criminal offence (“nul ne peut être condamné” nella versione ufficiale francese) on account of any act or omission which did not constitute a criminal offence (infraction) under national or international law at the time when it was committed. Nor shall a heavier penalty be imposed than the one that was applicable at the time the criminal offence was committed”.
[“Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”.]
La giurisprudenza Cedu ha precisato che i concetti giuridici rilevanti in tale materia debbano essere definiti anche alla luce del significato desumibile dall'art. 6 e dall'interpretazione che di esso è stata data dalla giurisprudenza (cfr. ad. es. Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1984, par. 49, Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, par. 27). Tale articolo, com'è noto, in tema di diritto a un equo processo prevede:
“In the determination of his civil rights and obligations or of any criminal charge against him, everyone is entitled to a fair and public hearing within a reasonable time by an independent and impartial tribunal established by law. Judgement shall be pronounced publicly by the press and public may be excluded from all or part of the trial in the interest of morals, public order or national security in a democratic society, where the interests of juveniles or the protection of the private life of the parties so require, or the extent strictly necessary in the opinion of the court in special circumstances where publicity would prejudice the interests of justice.
Everyone charged with a criminal offence shall be presumed innocent until proved guilty according to law.
Everyone charged with a criminal offence has the following minimum rights:
(a) to be informed promptly, in a language which he understands and in detail, of the nature and cause of the accusation against him;
(b) to have adequate time and the facilities for the preparation of his defence;
(c) to defend himself in person or through legal assistance of his own choosing or, if he has not sufficient means to pay for legal assistance, to be given it free when the interests of justice so require;
(d) to examine or have examined witnesses against him and to obtain the attendance and examination of witnesses on his behalf under the same conditions as witnesses against him;
(e) to have the free assistance of an interpreter if he cannot understand or speak the language used in court.”
[Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità può pregiudicare gli interessi della giustizia. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. In particolare, ogni accusato ha diritto a: essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in un modo dettagliato, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa; difendersi personalmente o avere l'assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d'ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata all'udienza.]
4.4.1 Insufficienza della qualificazione nazionale per escludere l'applicabilità del divieto di sanzioni retroattive dell'art. 7 della CEDU
Ai fini della verifica se il divieto di retroattività di cui all'art. 7 CEDU sia applicabile alla “sanzione” della incandidabilità, va, innanzitutto ricordato, come costituisca giurisprudenza ormai consolidata della Corte europea quella secondo cui i concetti evocati dalla disposizioni convenzionali quali reato, sanzione penale, accusa penale, ecc. (criminal offence, criminal penalty, criminal charge, ecc.) non possano essere ricostruiti sulla base della sola qualificazione ad essi data dall'ordinamento interno. Ciò ha consentito alla Corte di ricondurre nell'alveo dell'art. 6 (e dunque anche del 7) una serie di ipotesi sanzionatore (disciplinari, amministrative, ecc.) espressamente qualificate come “non penali” dallo Stato interessato (in materia di sanzioni amministrative cfr. ad es. Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1984; in materia di sanzioni disciplinari, Engel e altri contro Olanda, dell'8 giugno 1976).
La ratio di questa posizione (ricordata anche dalla Corte costituzionale sent. 196/201 citata in precedenza) è espressa chiaramente dalla Corte europea già nel caso Engel e altri contro Olanda, dell'8 giugno 1976, relativo all'applicazione di una sanzione “disciplinare”. In tale occasione la Corte, statuì che accettare la qualificazione nazionale di una fattispecie equivarrebbe a subordinare l'operatività delle clausole fondamentali degli articoli 6 e 7 alla sovrana volontà degli Stati:
“If the Contracting States were able at their discretion to classify an offence as disciplinary instead of criminal, or to prosecute the author of a "mixed" offence on the disciplinary rather than on the criminal plane, the operation of the fundamental clauses of Articles 6 and 7 (art. 6, art. 7) would be subordinated to their sovereign will. A latitude extending thus far might lead to results incompatible with the purpose and object of the Convention. The Court therefore has jurisdiction, under Article 6 (art. 6) and even without reference to Articles 17 and 18 (art. 17, art. 18), to satisfy itself that the disciplinary does not improperly encroach upon the criminal.” (par. 81)
La Corte europea precisò in quell'occasione, sulla base peraltro di un precedente giudizio, che, mentre non spetta a essa mettere in dubbio la qualificazione operata dallo Stato, qualora esso avesse definito “penale” di una certa disciplina e o una certa sanzione, la scelta inversa (l'esclusione nazionale della natura penalistica) dev'essere invece sottoposta ad uno specifico test fondato su criteri sostanziali:
“In the Neumeister judgment of 27 June 1968, the Court has already held that the word "charge" must be understood "within the meaning of the Convention"
“ The Convention leaves the States free to designate as a criminal offence an act or omission not constituting the normal exercise of one of the rights that it protects. This is made especially clear by Article 7 (art. 7). Such a choice, which has the effect of rendering applicable Articles 6 and 7 (art. 6, art. 7), in principle escapes supervision by the Court.
The converse choice, for its part, is subject to stricter rules.(...).
In short, the "autonomy" of the concept of "criminal" operates, as it were, one way only” (Engel e altri contro Olanda, dell'8 giugno 1976, par. 81)
4.4.2. I requisiti sostanziali per la qualificazione della fattispecie alla luce della giurisprudenza CEDU sul principio di irreotriattività ex art. 7 della Convenzione Esclusa la sufficienza della qualificazione interna ai fini dell'inquadramento delle “sanzioni” la Corte europea ha, com'è noto, individuato alcuni criteri o indicatori sulla base dei quali valutare la riconducibilità di una sanzione nell'ambito di applicazione del divieto di retroattività.
Si tratta, è il caso di precisare, di figure “sintomatiche” di cui non è richiesta la concorrenza, essendo sufficiente accertare la sussistenza di almeno una di tali circostanze (Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1984, par. 54 e Lutz c. Germania, 25 August 1987, par. 55, Matyiek c. Polonia, 30 maggio 2006, par. 47).
I principali di tali criteri risalgono alla sent. Engel e altri contro Olanda, dell'8 giugno 1976 (e sono stati confermati costantemente dalla giurisprudenza successiva (tra le altre, Lutz c. Germania, 25 agosto 1987, par. 54, Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1984, par. 50; Putz v. Austria, 22 febbraio 1996, par. 31 Pierre-Bloch c. Francia del 21 ottobre 1997, par. 54 ss.; Garyfallou AEBE c. Grecia, 24 settembre 1997par. 32).).
Il primo indicatore è, come accennato, quello della qualificazione nazionale in quanto è
“ necessary to know whether the provision(s) defining the offence charged belong, according to the legal system of the respondent State, to criminal law” Engel e altri contro Olanda, dell'8 giugno 1976, par. 82).
Come si è detto, infatti, nel caso in cui il diritto interno qualifichi già come penale la sanzione, la Corte (a differenza che nel caso opposto) assume questa qualificazione come sufficiente per statuire l'applicabilità degli artt. 6 e 7 CEDU.
Il criterio dell'inquadramento è dunque solo un punto di partenza (“This however provides no more than a starting point”).
Il secondo indicatore è quella della reale natura dell'illecito da cui origina la sazione (Engel e altri contro Olanda, dell'8 giugno 1976, par. 82). Se cioè, per la finalità perseguita e la ratio ispiratrice delle norme che prevedono l'illecito, siano presenti i caratteri propri di un illecito penale.
Il terzo indicatore che acquisisce in un certo senso importanza decisiva nell'approccio sostanzialista della Corte - sul presupposto che negli ordinamenti liberaldemocratici sia proprio la disciplina penale quella che giustifica sanzioni particolarmente afflittive e che dunque se la sanzione è particolarmente afflittiva essa vada inquadrata sostanzialmente nelle disciplina convenzionale sul diritto penale - è quello relativo al grado di severità della sanzione presa in considerazione.
Infatti, “in una società che riconosce la preminenza del principio di legalità appartengono alla sfera del diritto “criminale” le privazioni di libertà suscettibili di essere imposte come pena, eccezion fatta per quelle che per lora natura, durata o modalità di applicazione non possano essere significativamente afflittive”.
Cosicchè il controllo sull'applicazione della Convenzione sarebbe generalmente illusorio se esso non potesse prendere in considerazione proprio questo profilo:
“Such supervision would generally prove to be illusory if it did not also take into consideration the degree of severity of the penalty that the person concerned risks incurring. In a society subscribing to the rule of law, there belong to the "criminal" sphere deprivations of liberty liable to be imposed as a punishment, except those which by their nature, duration or manner of execution cannot be appreciably detrimental” (Engel e altri contro Olanda, dell'8 giugno 1976, par. 82)
4.4.3 La applicabilità del test CEDU al caso dell'incandidabilità ai sensi del d. lgs. 235 /2012.
Applicando tali indicatori al caso della fattispecie di incandidabilità di cui al d. lgs. 235/2012 sembra evidente che almeno il secondo e il terzo requisito risultino ricorrere.
Anche ad accogliere, cioè, la risalente interpretazione della Corte costituzionale, secondo la quale non si sarebbe in presenza di una fattispecie sanzionatoria riconducibile al diritto penale (e benchè peraltro si possano forse trovare argomenti testuali in senso opposto nella trama del d. lgs . 235/2012, tali da far pensare più ad una situazione “irrisolta” sul piano letterale quanto alla qualificazione), non sembra esservi dubbio sulla natura dell'illecito da cui l'incandidabilità scaturisce, peraltro automaticamente ed ex lege: e cioè il reato commesso.
A tale ultimo proposito, poi, non varrebbe obiettare che la condanna sia solo una occasio cui conseguono effetti non riconducibili alla nozione di sanzione penale di cui alla Convenzione.
Si tratta di profili già affrontati dalla Corte europea nel citato caso Welch allorchè si trattava di qualificare un’ordinanza di confisca (order of confiscation) emessa a seguito di condanna per traffico di stupefacenti. In quell'occasione la Corte rigettò la tesi del Governo del Regno Unito, che aveva sostenuto l'inesistenza di un legame tra sfera penalistica della condanna e natura non penale dell'ordinanza di confisca sulla base dell'argomento che la sentenza fosse solo una sorta di condizione di applicabilità (un “trigger”, un grilletto, una leva) delle disposizioni legislative
“a criminal conviction for drug trafficking was no more than a "trigger" for the operation of the statutory provisions. Once the triggering event had occurred, there was no further link with any conviction.” ( caso Welch c. Regno Unito, del 9 febbraio 1995, par. 24).
Ugualmente, considerando l'ampiezza degli effetti temporali (non meno di sei anni, che possono in concreto significare anche due intere legislature parlamentari) e oggettivi (la totalità delle cariche pubbliche a carattere politico nel caso di sentenza di condanna, come nel caso del sen. Berlusconi, superiore ai due anni per delitto non colposo), è difficile negare che siamo in presenza di una sanzione ad altissimo grado di “severità”, che incide su una delle fondamentali (e inviolabili) libertà politiche, così da non poter essere qualificata certamente come “non significativemente afflittiva”.
4.4.4. Inconferenza della sentenza Pierre-Bloch c. Francia in tema di ineleggibilità.
Le conclusioni appena raggiunte non sembrano potersi revocare in dubbio in considerazione del precedente costituito dalla decisione Pierre-Bloch c. Francia del 21 ottobre 1997 (nonché, ma esattamente negli stessi termini, nel giudizio di ammissibilità nel caso Masson c Francia, 12 febbraio 2008). Si trattava, com'è noto in quel caso, della vicenda di un candidato alle elezioni per l'Assemblée Nationale, il quale, avendo violato le norme sui limiti di spesa nella campagna elettorale si era visto comminare, a seguito di un procedimento di fronte al Conseil Constitutionnel, la sanzione della ineleggibilità, per un solo anno, per una sola legislatura e per quella sola Camera.
In particolare, nell'esame della questione, la Corte europea dei diritti dell'uomo, aveva escluso l'applicabilità dell'art. 6 della Convenzione a quella specifica fattispecie di ineleggibilità sulla base di una serie di concomitanti ragioni.
Innanzitutto, era esclusa in quel caso la (auto-)qualificazione penalistica ex lege (attesa la distinta presenza di una sezione del codice elettorale disciplinante specificamente i relativi reati). In secondo luogo la fattispecie all'origine della sanzione (il secondo indicatore della giurisprudenza europea) presentava una natura “anfibia” in quanto suscettibile di determinare sia un procedimento a carattere non penale di fronte al Conseil constitutionnel per comminare l'ineleggibilità, sia un distinto procedimento penale (in quel caso non attivatosi) per l'irrogazioni di sanzioni pecuniarie o detentive. La fattispecie e la sanzione non erano pertanto frutto di un accertamento nell'ambito di un procedimento penale.
In terzo luogo, anche quanto alla natura e severità della pena, le due situazioni (Peirre-Bloch e Berlusconi) non sono paragonabili.
Innazitutto perché, come detto, la sanzione dell'ineleggibilità non derivava automaticamente dall'accertamento di un fatto di reato. Anzi a tal proposito il giudice europeo non nega che, anche nel diritto francese, l'esclusione dall'elettorato passivo sia una delle forme di sanzione previste dal diritto penale, ma precisa che in tali circostanze la pena è “ancillare” e “aggiuntiva” rispetto alle pene principali imposte dal giudice penale, cosicchè la sua natura “penale” deriva dalla pena principale cui essa si “collega”:
“Admittedly, as the applicant pointed out, disqualification from standing for election is also one of the forms of deprivation of civic rights provided in French criminal law. Nevertheless, in that instance the penalty is “ancillary” or “additional” to certain penalties imposed by the criminal courts (see paragraph 39 above); its criminal nature derives in that instance from the “principal” penalty to which it attaches. (Pierre-Bloch c. Francia del 21 ottobre 1997, par. 56)
Detto in altri termini, è la connessione diretta con la pena principale e la condanna penale che determina la natura sostanzialmente penale o meno della fattispecie preclusiva dell'accesso ai pubblici uffici. Circostanza che, nel caso del d. lgs. 235/2012, atteso l'automatismo tra condanna alla pena principale e fattispecie della incandidabilità (vi sia o meno l'ulteriore sanzione accessoria dell'interdizione) induce a propendere per la conclusione esattamente opposta a quella testè esaminata. Quanto infine al profilo della severità della sanzione, è la Corte stessa a precisare che la sua ridotta severità è asseverata dalla limitazione ad un periodo di un solo anno dalla data delle elezioni e dalla circostanza che essa si applichi alla sola elezione dell'Assemblea Nazionale:
“The disqualification imposed by the Constitutional Council is, moreover, limited to a period of one year from the date of the election and applies only to the election in question, in this instance the election to the National Assembly.” ( Pierre-Bloch c. Francia del 21 ottobre 1997, 56).
E infatti, in senso contrario, la Corte nel caso Matyiek c. Polonia, 30 maggio 2006, ha ritenuto eccessivamente afflittiva la sazione della esclusione dall'accesso ad un certo numero di pubbliche funzioni (tra cui l'ufficio di parlamentare).
E' evidente pertanto che, nella sent. Bloch, la ragione principale per l'esclusione di una violazione della Convenzione sia dipesa dalla tenuità della sanzione e dalla connessione della vicenda con un procedimento “non penale” legato alle controllo sul contenzioso elettorale (così, infatti, indirettamente, Saccomanno c Italia, 13 marzo 2012, par. 78).
4.4.5. Conclusioni: illegittimità del d. lgs. 235/2012 se interpretato retroattivamente. La possibilità di un'interpretazione costituzionalmente conforme che esclude l'applicabilità del d. lgs. 235/2012 al caso in esame.
Tutto quanto precede induce pertanto a ritenere che l'interpretazione in base alla quale la disciplina del d. lgs. 235/2012 sia applicabile anche nel caso di condanne per fatti precedenti alla sua entrata in vigore sia illegittima, sia con riferimento alla Costituzione italiana che con riferimento alla CEDU suscettibile, a sua volta, di determinare l'illegittimità di norme primarie in forza del richiamo di cui all'art. 117, comma 1, Cost.
Non si tratta peraltro, a parere di chi scrive, di un'interpretazione imposta. La legge di delega, infatti, non contiene alcuna indicazione espressa che prescriva un'applicazione retroattiva della disciplina. Il riferimento al presupposto di una sentenza definitiva di condanna, infatti, non impone che se ne tragga la conclusione dell'irrilevanza (ai fini dell'applicazione) del momento in cui i fatti su cui essa si fonda siano avvenuti.
Tale conclusione sarebbe infatti possibile ove non se ne potesse trarre un'interpretazione costituzionalmente orientata in senso opposto.
Una diversa soluzione ermeneutica invece appare possibile. Si può cioè ritenere che il riferimento alla sentenza definitiva non sia rilevante ai fini della determinazione del dies a quo rispetto al quale si dispiega l'efficacia qualificatoria delle norme, ma che esso serva, in funzione garantista, a togliere ogni incertezza sul fatto che l'accertamento di colpevolezza debba essere “definitivo” e non limitato ad una pronunzia intermedia o addirittura al mero rinvio a giudizio.
Che d'altronde la preoccupazione del legislatore delegante non sia peregrina è dimostrato dal fatto che, nel passato, la legge aveva previsto ipotesi di incandidabilità discendenti dal mero rinvio a giudizio, rendendo così necessario un intervento declaratorio di incostituzionalità da parte delle Corte costituzionale (cfr. sent. 141/1996).
In questa diversa prospettiva interpretativa, allora, il riferimento alla sentenza definitiva si atteggerebbe (non ad indicatore dell'efficacia temporale), ma semplicemente a regola per assicurare una certezza e dar seguito alla giurisprudenza costituzionale. Peraltro che tale interpretazione debba essere preferita è desumibile anche dal principio di tassatività e di stretta interpretazione che si impone nell'esame delle cause limitative dell'elettorato passivo (come ribadito costantemente dalla Corte costituzionale, cfr. per tutte C. cost. 141/1996 e le altre citate nel successivo paragrafo del presente parere). La conseguenza dovrebbe essere, che in presenza di più interpretazioni possibili si privilegi quella meno lesiva (anche dal punto di vista dell'applicazione temporale) del diritto all'elettorato.
La soluzione alternativa appena prospettata non pare possa essere revocata in dubbio alla luce dell'interpretazione a contrario fornita dal Consiglio di Stato, nella menzionata sentenza Miniscalco, dell'art. 16 del decreto legislativo.
E' vero, infatti, che non sembra ugualmente possibile con riferimento a quella disposizione un'interpretazione diversa da quella della (illegittima) retroattività del testo unico. Ma è altrettanto vero che tale art. 16 appare suscettibile di incorrere in un diverso e autonomo vizio di legittimità, quello dell'eccesso di delega. Confrontando, infatti, la legge delegante e il decreto che ad essa dà attuazione, appare evidente che la portata retroattiva, dovuta all'applicazione della disciplina anche a seguito di sentenze precedenti la sua entrata in vigore, non è ricavabile né espressamente né implicitamente da alcuna disposizione della legge di delega.
Ciò non può non determinare il sorgere di un vizio di legittimità dell'atto delegato, in quanto, come affermato più volte dalla Corte costituzionale, l'abilitazione ad una efficacia retroattiva del decreto legislativo dev'essere espressamente conferita dalla legge delegante. Si afferma, in particolare, nella sent. 29/64 che “anche nel fissare la data di decorrenza della disciplina delegata il Governo debba osservare i principi ed i criteri direttivi della legge delegante, in conformità dell'art. 76 della Costituzione, e che, di conseguenza, si debba, in relazione alle singole leggi di delega, accertare se il legislatore delegato abbia il potere di conferire alle norme un'efficacia retroattiva.” (in senso conforme, cfr. anche sent. 425/2000).
5. Alcuni ulteriori vizi di legittimità del decreto legislativo per violazione del requisito della ragionevolezza e della proporzionalità in relazione all'artt. 2, 3 e 51 della Costituzione italiana e all'art. 3 del protocollo n.1 della CEDU Un'applicazione retroattiva, peraltro, appare ancor più perniciosa se si considerano altri possibili profili di illegittimità costituzionale della disciplina in questione che vedrebbe pertanto applicati al passato anche tali ulteriori “vizi”. Non essendo oggetto specifico del presente parere si può procedere solo con qualche accenno.
I dubbi di legittimità sembrano doversi riscontrare sotto il profilo della violazione del canone di ragionevolezza e proporzionalità della disciplina.
Com'è noto, la Corte costituzionale, nel sindacare la normativa sull'incandidabilità per gli altri diversi livelli di governo ha messo in evidenza ripetutamente l'esigenza di addivenire ad uno “scrutinio stretto” delle previsioni legislative che la prevedono.
Ciò sul noto e ribadito presupposto che l'incandidabilità incide sul “diritto di elettorato passivo, che l'art. 51 della Costituzione assicura in via generale, e che questa Corte ha ricondotto alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall'art. 2 della Costituzione (sentenze nn. 571 del 1989 e 235 del 1988)” (sent. 141/1996, par. 3).
Con la conseguenza che
“la sua restrizione è ammissibile soltanto nei limiti strettamente necessari alla tutela di altri interessi costituzionalmente protetti e secondo le regole della necessità e della ragionevole proporzionalità (sentenze n. 240 del 2008 e n. 141 del 1996)”. (sent. 257/2010, punto 4 del considerato in diritto)
E dunque, il “controllo può arrestarsi dinanzi all'osservazione che esiste un nesso di strumentalità tra la non candidabilità e i valori di rilievo costituzionale testé ricordati: le restrizioni del contenuto di un diritto inviolabile sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di altri interessi di rango costituzionale, e ciò in base alla regola della necessarietà e della ragionevole proporzionalità di tale limitazione (sentenza n. 467 del 1991, cons. dir., n. 5; sui limiti posti a diritti inviolabili da esigenze di conservazione dell'ordine pubblico, v., fra le varie, le sentenze nn. 138 del 1985 e 102 del 1975). Qui si deve accertare se la non candidabilità sia dunque indispensabile per assicurare la salvaguardia di detti valori, se sia misura proporzionata al fine perseguito o non finisca piuttosto per alterare i meccanismi di partecipazione dei cittadini alla vita politica, delineati dal titolo IV, parte I, della Carta costituzionale, comprimendo un diritto inviolabile senza adeguata giustificazione di rilievo costituzionale. [cosicchè] Nel compiere tale verifica, non bisogna dimenticare che "l'eleggibilità è la regola, e l'ineleggibilità l'eccezione": le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorale passivo sono di stretta interpretazione e devono contenersi entro i limiti di quanto è necessario a soddisfare le esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate (v. già la sentenza n. 46 del 1969, indi la sentenza n. 166 del 1972, fino alle sentenze nn. 571 del 1989 e 344 del 1993).”( sent. 141/1996, par. 3 del considerato in diritto, e, nello stesso senso, sentt 46/1965, 166/1972, 5/1978)
Attese tali premesse, dubbi sulla legittimità della normativa possono prospettarsi sotto almeno tre profili.
5.1. Irragionevolezza nell'individuazione dei reati presupposti
Il primo profilo è quello relativo alla ragionevolezza nell'identificazione dei presupposti dell'applicazione dell'incandidabilità, in particolare per quanto previsto all'art. 1, comma 1 lett. c), riferito, com'è noto, a
“coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell'articolo 278 del codice di procedura penale”.
Tale lettera presenta, rispetto alle precedenti a) e b), un'evidente peculiarità. Mentre infatti i reati di cui alle lett. a) e b) del medesimo articolo sono individuati sulla base di un riferimento “tipologico” (reati con finalità di terrorismo o di stampo mafioso, ovvero delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione), quelli di cui alla lett. c) sono individuati esclusivamente in base ad un criterio commisurato alla pena prevista, con la conseguenza che nella fattispecie possano rientrare reati che tipologicamente sono della più varia natura, fino alle ipotesi di furto con strappo e in abitazione (art. 624 bis c.p.), calunnia (368 c.p.), o, con riferimento all'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 278 c.p.p., anche il furto aggravato (624 c.p.) e la truffa aggravata (640 c.p.).
Una tale tecnica legislativa pone numerosi dubbi di legittimità, in ragione della assoluta varietà di ipotesi e della evidente differente incidenza sui valori costituzionali “di primario rilievo” che la previsione dell'incandidabilità dovrebbe tutelare per giustificare la limitazione del diritto inviolabile all'elettorato passivo.
La Corte costituzionale ha in particolare sottolineato come i valori in questione debbano ricondursi alle esigenze di “assicurare la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche allo scopo di fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale coinvolgente gli interessi dell’intera collettività» (ad. es. sentt. 407/1992, 132/2001, 352/2008, 288/1993, 295/1994, 118/2013).
Il giudice delle leggi, com'è noto, infatti, nel sindacare tali normative con riferimento alle cariche pubbliche a livello locale e regionale ha sempre ribadito la necessità, perchè se ne escludesse l'incostituzionalità, che la discrezionalità legislativa, costituzionalmente orientata al riferimento a quei valori costituzionale di primario rilievo, muovesse dall'identificazione di una matrice unitaria per i reati posti a presupposto dell'incandidabilità.
In particolare è stato proprio con riferimento a tale requisito che la Corte ha escluso l'irragionevolezza della disciplina della incandidabilità con riferimento a “condanne per qualsiasi delitto commesso con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio”.
Afferma infatti il giudice delle leggi nella sent. 295/1994, che
“Non può essere tacciata di irragionevolezza una norma improntata certamente a severità, ma coerente con le finalità anzidette [di proteggere i valori di primario rilievo] (…) La coerenza della norma con le dette finalità sta appunto nell'aver dato particolare peso, quale requisito negativo, a delitti che, pur essendo di maggior o minor gravità, sono tutti accomunati dalla connotazione di essere stati commessi con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, o a un pubblico servizio. Tanto basta per escludere qualsiasi sospetto di irragionevolezza della norma adottata dal legislatore.” (punto 3.3. del considerato in diritto, corsivo non testuale).
Ancor più chiaramente la Corte ha escluso che il “valore” in sé del bene offeso o l'entità della pena comminata potessero essere di per sé l'elemento rilevante per la qualificazione ai fini della incandidabilità, dovendo viceversa considerarsi la ratio unitaria, dal punto di vista qualitativo, dell'insieme di reati considerato, in funzione dell'esigenza di salvaguardia dei valori costituzionali primari.
“I delitti per i quali l'art. 15 citato prevede -dopo la condanna definitiva- la decadenza o anche -in caso di condanna non definitiva- la sospensione obbligatoria dalla carica elettiva sono appunto qualificati, secondo la giurisprudenza costituzionale, non tanto dalla loro gravità in relazione al "valore" del bene offeso o all'entità della pena comminata, ma piuttosto dal fatto di essere considerati tutti dal legislatore come manifestazione di delinquenza di tipo mafioso o di altre gravi forme di pericolosità sociale, non irragionevolmente ritenendoli il legislatore stesso, nell'ambito delle proprie, insindacabili scelte di politica criminale, parimenti forniti di alta capacità di inquinamento degli apparati pubblici da parte delle organizzazioni criminali. Si giustifica in questo modo una disciplina molto rigorosa ispirata alla comune ratio di prevenire e combattere tali gravi pericoli allo scopo appunto di salvaguardare "interessi fondamentali dello Stato" (sentenze n. 206 del 1999 e n. 184 del 1994).
Questa disciplina é stata dunque formulata dal legislatore in modo unitario, pur prendendo in considerazione diverse figure di reato” (C. cost. Sent. 25/2002, punto 3.1.). Ora sembra difficile, anche alla luce delle esemplificazioni sopra proposte, considerare che i reati di cui all'art.1, comma 1 lett. c) del decreto legislativo in questione possano essere ricondotti ad una matrice qualitativamente unitaria, siano “tutti accomunati da una medesima connotazione” (non legata meramente al dato quantitativo della pena prescritta), rispondano ad una “comune ratio” espressiva della circostanza che il legislatore abbia formulato una disciplina “in modo unitario”.
5.2. Irragionevolezza e sproporzione degli effetti dell'incandidabilità
Un secondo profilo di irragionevolezza riguarda invece gli effetti dell'incandidabilità.
Esso emerge sia con riferimento alla natura eccezionale delle limitazioni dell'elettorato passivo, ricavabile dagli art. 51 e 65 in base alla giurisprudenza costituzionale, sia con riferimento a quanto previsto in materia dalla CEDU e in particolare dal Protocollo 1, art. 3.
Come già si è detto, attesa la sistematicità, sotto questo profilo, della disciplina del testo unico, coloro che incorrano nella fattispecie di cui all'art. 1, comma 1, lett. c) sono suscettibili di vedersi applicati (data la formulazione delle relative norme) anche i corrispondenti articoli sull'incandidabilità per tutte le altre cariche considerate nel testo unico.
Ciò significa concretamente che essi sono completamente esclusi dall'accesso a tutti i pubblici uffici di carattere politico (e di nomina politica per ciò che attiene a regioni ed enti locali) per una durata di almeno 6 anni, arco temporale che, peraltro, prescinde dal numero di legislature e che dunque può in concreto riguardare almeno due di esse, ma anche un numero superiore e giungere in concreto fino a dieci, se non undici anni.
Si consideri - per comprendere la rilevanza di quanto appena evidenziato - come, ad es., per escludere la fondatezza, rispetto all'art. 51 Cost., della questione di legittimità costituzionale del divieto degli avvocati che avessero fatto parte della commissione di esame, di prender parte alle elezioni della Cassa forense o del Consiglio dell'ordine “immediatamente successive” allo svolgimento dell'incarico, la Corte costituzionale, con l'ord.138/2011, abbia insistito sulla circostanza che un tale periodo non è “né temporalmente indeterminato né, in sé, eccessivo o irragionevole”.
La circostanza che l'incandidabilità, come conseguenza afflittiva che incide sul diritto inviolabile di accedere ai pubblici uffici, sia applicata senza alcuna graduazione di tempo e di ampiezza con riferimento alle differenti ipotesi di reato presupposto - con la conseguenza che chi ha, ad esempio, commesso furto in abitazione subisca le stesse conseguenza di chi sia stato condannato per fatti di criminalità organizzata o di terrorismo - non può non suscitare più di un dubbio
Tanto più che il legislatore delegato mostra di essere consapevole della necessità di una qualche differenziazione di disciplina in connessione alla natura dei comportamenti che hanno dato origine all'incandidabilità, ma limita questa preoccupazione al solo caso in cui il reato sia stato commesso con abuso dei poteri o in violazione dei doveri connessi al mandato elettivo, di parlamentare nazionale o europeo, o all'incarico di Governo, elevando di un terzo la durata dell'incandidabilita' (art. 13 d. lgs. 235/2012).
Tale irragionevolezza risulta ancor più evidente considerando la giurisprudenza CEDU, la quale è più volte intervenuta a sindacare la proporzionalità delle ipotesi di limitazione dell'elettorato passivo con riferimento al tempo e alla natura delle sanzioni.
Si tratta di principi ribaditi in una cospicua giurisprudenza (cfr. da ultimo Paksas c. Lituania, 6 gennaio 2011, ma già Mathieu-Mohin and Clerfayt c. Belgio, 2 marzo 1987, par. 46-54, Hirst c. Regno Unito, 6 10 2005, parr.56-62, Ždanoka c. Lettonia, 16 marzo 2006, par. 102-15, Ādamsons c. Lettonia, 24 giugno 2008par 111, Tănase c. 27 aprile 2010 par. 154-162), la quale ha innanzitutto affermato che il diritto a libere elezioni, di cui all'art. 3 del menzionato Protocollo comprende anche i diritti soggettivi di elettorato attivo e passivo. La Corte europea ha inoltre precisato che gli Stati hanno bensì un “margine di apprezzamento” quanto alle limitazioni di tali diritti, dovuto anche agli sviluppi storici del sistema politico, alle diversità cultura ecc., ma che tale margine di apprezzamento, per quanto ampio, non è assoluto, spettando alla Corte stessa verificare che tali limitazioni non ostacolino la “libera espressione delle opinioni dei cittadini nella scelta dei legislatori” (“the free expression of the opinion of the people in the choice of the legislature”).
In particolare, spetta, in ultima istanza, alla Corte europea dei diritti dell'uomo valutare se l'art. 3 sia stato rispettato e se le limitazioni imposte “non limitino i diritti sino al punto di comprometterne la loro propria essenza e privarli di effettività, perseguano un fine legittimo e che i mezzi impiegati non siano sproporzionati” “that the restrictions imposed do not curtail the right in question to such an extent as to impair its very essence and deprive it of its effectiveness; that they pursue a legitimate aim; and that the means employed are not disproportionate”, così da ultimo, Paksas, c. Lituania, 6 gennaio 2011).
Sulla base di questi presupposti la Corte ha, ad esempio, dichiarato contraria alla convenzione la previsione ad es. di una ineleggibilità a vita a seguito di una procedura di impeachment (Paksas, c. Lituania, 6 gennaio 2011), ha considerato irragionevole e sproporzionata la sanzione della privazione del diritto di elettorato per i detenuti anche là dove la parte della pena connessa con la privazione del diritto elettorale fosse già stata espiata ( Hirst c. Regno Unito, 6 10 2005, par. 41), ha, in sede di ammissibilità, considerato in contrasto con la Convenzione la sanzione dell'interdizione decennale dai pubblici uffici e da alcuni uffici privati per un cittadino polacco che aveva mentito nell'ambito del procedimento di “lustrazione” (Matyiek c. Polonia, 30 maggio 2006).
E dunque evidente che, sia con riferimento alla giurisprudenza costituzionale che a quella europea l'esigenza di una verifica giudiziale sulla proporzionalità e ragionevolezza della sanzione dell'incandidabilità dei parlamentari, alla stregua dei principi richiamati, appare più che giustificata.
5.3. Irragionevolezza ed elusione della delega sotto il profilo del coordinamento con la disciplina delle pene accessorie e della determinazione della durata dell'incandidabilità
Un terzo profilo riguarda l'applicazione della legge delega quanto alla durata dell'incandidabilità.
Com'è noto la legge 190/2012 all'art. 1, comma 64 lett. c), indica al Governo di: “c) prevedere la durata dell'incandidabilita' di cui alle lettere a) e b)” e di “e) coordinare le disposizioni relative all'incandidabilita' con le vigenti norme in materia di interdizione dai pubblici uffici e di riabilitazione, nonche' con le restrizioni all'esercizio del diritto di elettorato attivo;”
Il d. lgs. 235/21012 interviene sul punto con due disposizioni: l'art. 13. relativo alla durata della medesima, prevedendo al comma 1 che “L'incandidabilita' alla Carica di deputato, senatore e membro del Parlamento europeo spettante all'Italia, derivante da sentenza definitiva di condanna per i delitti indicati all'articolo 1, decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza stessa ed ha effetto per un periodo corrispondente al doppio della durata della pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici comminata dal giudice. In ogni caso l'incandidabilita', anche in assenza della pena accessoria, non e' inferiore a sei anni. “
e l'art. 15, comma 2, a termini del quale:
“L'incandidabilita' disciplinata dal presente testo unico produce i suoi effetti indipendentemente dalla concomitanza con la limitazione del diritto di elettorato attivo e passivo derivante dall'applicazione della pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici”
Ora è sufficiente un semplice raffronto per comprendere come il decreto legislativo sia incorso in un'evidente violazione della delega. L'esigenza di coordinamento dell'incandidabilità con l'istituto dell'interdizione dai pubblici uffici, attesa l'identità di incidenza di entrambe (quantomeno) sull'elettorato passivo, è stata dal legislatore delegato completamente elusa. Affermando infatti che il testo unico produce i suoi effetti “indipendentemente dalla concomitanza” con l'interdizione, esso ha negato in radice qualsiasi coordinamento, prefigurando due istituti che sembrano muoversi su piani paralleli finendo per potersi intrecciare o meno in base a circostanze di fatto ma, appunto, senza alcun coordinamento normativo. E anche là dove – con riferimento alla durata – il d. lgsl 235/2012 ha previsto un coordinamento del tempo di applicazione dell'incandidabilità con quello della pena interdittiva (calcolandolo nel doppio della durata di quest'ultima) ha immediatamente contraddetto tale circostanza prevedendo, da un lato che l'incandidabilità si produce anche in assenza di pena accessoria (quindi ancora una volta non coordinando, ma “scoordinando” incandidabilità e interdizione, cioè separandone i destini), e, dall'altro che, quand'anche ci sia la pena accessoria, la definizione della durata della incandidabilità non possa essere inferiore a sei anni (una sorta di semi-coordinamento o di “semi-scoordinamento”).
Una tale radicale elusione della delego non può non destare dubbi di legittimità, attesi anche i numerosi nodi irrisolti che la disciplina lascia aperti. Si pensi ad esempio al destino dell'incandidabilità allorchè la pena accessoria si estingua, magari per un provvedimento presidenziale di clemenza o di indulto. Si pensi ancora al problema del calcolo dell'incandidabilità allorché la pena accessoria non ci sia o, come nel caso del Sen. Berlusconi, non ci sia, ma verosimilmente ci sarà solo nel futuro, in una misura che, peraltro, al momento non si è in grado di prevedere.
La questione si complica fino ad essere irresolubile senza un intervento caducatorio o legislativo, proprio in considerazione della fattispecie che di cui si tratta nel presente parere, con riferimento all'ipotesi in cui la pena accessoria non ci sia (ancora). Il disposto dell'art. 13 infatti prevede che, in assenza di pena accessoria, l'incandidabilità non sia “inferiore a sei anni”, ma non dice quanto debba essere, né in base a quale parametro essa debba venire fissata. Né si può far riferimento alla pena accessoria, su cui calcolare il “doppio”, perchè per definizione la pena accessoria non c'è.
Per la parte in cui indica un limite minimo di durata, senza determinare i criteri per il calcolo della misura della stessa la disposizione è pertanto certamente irragionevole.
In assenza di altre indicazioni, peraltro, la previsione del solo limite minimo pone ulteriori evidenti problemi di legittimità sotto il profilo della ragionevolezza. Sia perchè non discrimina rispetto alle diverse fattispecie e categorie di reati di cui all'art. 1, i quali, come si è detto, possono essere di assai differente natura e qualità, sia perchè, limitandoci alla sola pena, non distingue – per i primi sei anni “minimi” di incandidabilità - tra casi in cui sia irrogata la pena accessoria e casi in cui non sia irrogata, e nel caso in cui sia irrogata, tra l’ipotesi in cui essa sia, ad es., di un anno e quella che sia di tre (determinando esse, pur essendo significativamente diverse, gli stessi effetti in termini di durata dell'incandidabilità).
6. Conclusioni
Alla luce di quanto si è sopra esposto si ritiene pertanto che la disciplina in oggetto presenti numerosi profili di illegittimità, tali da renderne assai problematica l'applicazione senza una previa modifica legislativa che ne sciolga i numerosi nodi irrisolti o senza un previo accertamento da parte dell'organo di controllo di costituzionalità delle leggi, investito anche mediante questione incidentale sollevata dalla Giunta delle elezioni e delle immunità o dall’Assemblea del Senato, attesa la “natura giurisdizionale del controllo sui titoli di ammissione dei suoi componenti, attribuito in via esclusiva, con riferimento ai parlamentari, a ciascuna Camera ai sensi dell'art. 66 Cost.” (C. cost., sent. 259/2009, punto 2.2. del considerato in diritto) e in considerazione delle prassi della Giunta per le elezioni e le immunità parlamentari del Senato (cfr. ad es. Seduta I luglio 2009).
In particolare si ritiene che:
a) La disciplina del testo unico, se ritenuta applicabile a condanne per fatti precedenti la sua entrata in vigore, abbia carattere retroattivo, in quanto da essa discende un limite all’elettorato passivo non previsto dalla legge al momento in cui i fatti furono commessi;
b) La sentenza di condanna non possa essere il punto di riferimento temporale per verificare la retroattività della disciplina, in quanto essa costituisce, sotto questo profilo, solo un atto di accertamento di fatti che sono precedenti;
c) Oltre che retroattiva la disciplina presenti caratteri sanzionatori di tipo particolarmente afflittivo, ai sensi della giurisprudenza costituzionale italiana e soprattutto della giurisprudenza delle Corte europea dei diritti dell’uomo;
d) Sulla base di tali presupposti essa debba ritenersi, in questa interpretazione, costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 25, comma 2 cost., e, atteso il rinvio alla CEDU da parte dell’art. 117, comma 1, Cost., dell’art. 7 della medesima;
e) Sarebbe peraltro possibile una diversa interpretazione costituzionalmente orientata che consente di escluderne la retroattività e dunque l’applicabilità della disciplina a sentenze per fatti precedenti l’entrata in vigore del testo unico.
f) Il d. lgs. 235/2012 appare altresì costituzionalmente illegittimo per vari profili di irragionevolezza della sua disciplina e di sproporzione dell’entità della sanzione dell’incandidabilità.
Si tratta invero di una disciplina che intrattiene un rapporto a dir poco ambiguo con le norme (e le vicende) penali cui essa viene ricollegata, talvolta pretendendo di collocarsi su un binario totalmente separato, talaltra, viceversa, riferendosi proprio alla disciplina penalistica non solo come presupposto, ma anche per determinare le conseguenze dell'applicazione di essa sulle vicende dell'incandidabilità del condannato (ad es. in riferimento all’estinzione o non estinzione dell'incandidabilità, alla graduazione della durata dell'incandidabilità in caso di comminazione di pene accessorie, ecc.).
Si tratta pertanto di una disciplina che finisce per essere sostanzialmente elusiva della normativa Costituzionale e CEDU in materia penale e viziata da irragionevolezza e difetto di proporzionalità.
Si pone pertanto la necessità di una particolare ponderazione nell'applicazione di tale normativa, soprattutto in considerazione della assoluta novità di essa rispetto all'ufficio di parlamentare. Ciò anche in ossequio ai numerosi inviti alla cautela che la Corte europea dei diritti dell'uomo e la Corte costituzionale hanno rivolto ai legislatori nazionali.
Basti ricordare, in chiave conclusiva, quanto il nostro giudice delle leggi ha affermato a questo proposito:
“Non va dimenticato, infatti, che, in forza dell'art. 51, primo co. Cost., l'elettorato passivo e aperto a tutti i cittadini, senza discriminazioni.
E’ questa la regola dettata dalla Costituzione, sicché ogni limitazione che la legge pone in ordine ai requisiti di eleggibilità - così come pure é previsto dall'art. 51 citato - ha carattere di aperta eccezione, e va calibrata con estrema cautela e sempre in stretta aderenza ai principi costituzionali.” (sent 1020/1988, punto 2 del considerato in diritto)Giovanni Guzzetta
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