Ci sono parole che non si possono più usare, per quanto molto efficaci nel definire qualcosa o qualcuno, perché considerate volgari o blasfeme. Altre che non si possono più dire perché, per quanto vere, rischiano di offendere qualcuna o qualcuno. E altre ancora a cui non si può più ricorrere perché, troppo stravaganti o colte, rimangono ormai incomprensibili a tanti e tante.
Il linguaggio - in tutte le sue sfumature: gergali, irriverenti, fantasiose è il patrimonio culturale più straordinario che abbiamo. E stiamo facendo di tutto per depauperarlo. Contro la creatività vincono i conformismi, le censure di piccolo cabotaggio, le finte buone maniere. Taci, i guardiani del Pensiero ti ascolano. E così, senza accorgersene, sono finite le parole
Le parole del primo tipo, immorali e sboccate, si trovano nel nuovo «vocabolario ragionato» del linguista Pietro Trifone Brutte, sporche e cattive, sottotitolo «Le parolacce della lingua italiana» (Carocci). Esempi: «puttana» - il sessismo del maschio primordiale - dove «putta» è il più antico vocabolo volgare italiano registrato dagli storici della lingua, siamo nel XII secolo: «File dele pute, traite» un'iscrizione in un affresco della basilica romana di san Clemente; «ciornia», «ciula», «culano» e «culattino» (omofobia! omofobia!!), «sgnacchera», «tana», «torrone», «trapanare» (tutte parole di area settentrionale); «brodosa», «cazzabubbolo», «cazzomatto», «ceppa», «fresca», «nerchia», «sorca», «tubo» (siano in area centrale: Roma caput mundi del turpiloquio); «androcchia», «pesce», «recchione», «spellecchiapalle», «sticchio» (area meridionale).
Le parole del secondo tipo, quelle della discriminazione, o supposta tale, le peschiamo invece nella cronaca quotidiana perché bandite dal micidiale combinato disposto politicamente corretto - cancel culture - #MeToo - ideologia Woke. Esempi: negro, frocio, handicappato, zingaro, rom, camminante di merda, «crucco», terrone, nano, checca, barbone, ebreo (termine in qualsiasi accezione scivolosissimo, meglio evitare), vecchio, grasso, mongoloide, spastico, pompinara (e sinonimi), «femmina» (ma si può usare spesso femminista, termine molto amato). Tutti termini moralmente sconvenienti, ma linguisticamente impagabili nel descrivere il mondo.
Le parole del terzo tipo infine, estrose e raffinate, le possiamo spilucchare dal Dizionarietto illustrato della lingua italiana lussuosa (ora ripubblicato da Elliot a cura di Antonio Castronuovo) di Giampaolo Barosso (1937-2014), già ricercatore Centro di Cibernetica e Attività Linguistiche dell'Università di Milano ma anche sceneggiatore di centinaia di storie di Topolino. Esempi: «acconigliare», cioè tirare i remi in barca, «achiro», essere umano mancante di mani, «cacume», sommità, «digrumare», mangiare con voracità spaventosa, «harem», sinonimo di «donnile», o «stalla da donne» (questa va bene anche come esempio della seconda categoria), «litòdomo», costruttore di muri (ma si sa, i muri oggi si devono solo abbattere), «mordacchia», ossia stringilabbro per bestemmiatori, ma oggi anche per chi infrange le tre categorie; «orbilio», maestro che picchia gli alunni, «ribrezzare», che significa «passare»: «Come te la ribrezzi?», che rispetto all'odierno «Come butta, raga'?», non ha prezzo Il catalogo linguistico di quel gentiluomo torinese di Barosso uscì da Rizzoli nel 1977, e contiene 2500 lemmi. Oggi, se volessimo aggiornarlo con le parole che non sappiamo più usare o abbiamo dimenticato, a quanto arriveremmo?
A proposito. Quando Tullio De Mauro, mai compianto come oggi (breve inciso: strana quella società in cui non si può più usare «morto», mentre ci si conforta con l'«outlet del funerale» di una celebre pubblicità) stilò il suo celebre Vocabolario di base della lingua italiana che censiva le parole maggiormente usate della nostra lingua - erano gli anni Ottanta raccolse circa settemila termini. Quelli che tutti usano sempre. L'italiano essenziale, appunto. E oggi? Se diamo fiducia a Save the Children (organizzazione secondo la quale una percentuale fra il 30 e il 50% dei quindicenni italiani non comprende il significato dei testi scritti); oppure se guardiamo i devastanti dati di lettura nel Paese (di libri e di quotidiani); o consideriamo il grado zero di scrittura utilizzato dagli italiani sui diversi device, potremmo azzardare che il vocabolario di base, ossia le parole usate e capite da tutti, si sia ristretto alla cifra di 1500? O 1000?
Poi, come se non bastasse l'impoverimento del linguaggio, ci si mettono le varie polizie del pensiero, i cui occhiuti agenti dell'Inclusività dimenticano una regola fondamentale: come insegna l'Accademia della Crusca, le parole che fanno parte dell'italiano e di qualsiasi lingua naturale non possono e non devono essere «decise» o «scelte» o «imposte» dall'alto, ma sono quelle che spontaneamente si attestano negli usi dei parlanti, sulla base delle normali dinamiche di funzionamento delle lingue. Eppure... Qualcuno ha mai contato le parole spazzate via dai discorsi quotidiani siano essi chiacchiere private o scritti pubblici perché tacciate di sessismo, razzismo, omofobia, binarismo linguistico? L'ossessione per l'inclusione, vietando o modificando le parole, ha generato mostri, desertificato il linguaggio, mortificato la ricchezza espressiva. Così non schwa, ammonisce il linguista Andrea De Benedetti nel suo nuovo saggio-pamphlet pubblicato dalla solitamente iper correttissima Einaudi. Già, così non va. Morale: come rendere meno accessibile, più piatta, mutilata e più povera una lingua. Senza contare la superficialità di azzerare del tutto il contesto in cui è detta una parola, condannando con furia cieca e senza logica certe parole. Come se «negro» o «nano» pesassero allo stesso modo in uno show di Roberto Benigni o nel discorso di un parlamentare
Per il resto, da giornalisti che considerano sacre e degne di essere usate (con l'unico limite del codice penale) tutte le parole della lingua italiana, troviamo più sgraziato un termine come «LGBTQ+» piuttosto che un leggiadro «piglianculo», più offensivo un burocratico «assessora» piuttosto che un metaforico «maiala», più sterile un gelido «gender» piuttosto che un espressivo «sbrodare» Certo, poi esistono anche le follie ideologiche. Giorni fa il Corriere della sera titolava un articolo su Anna Netrebko «La soprana russa».
Troviamo che questo sia un vero esempio di hate speech nel senso di odio per una lingua...E vorremmo anche raccontare gli straordinari effetti espressivi della blasfemia, o gli insostenibili incubi dottrinali della didattica inclusiva. Ma purtroppo abbiamo finito lo spazio. E anche le parole.
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