La parola alle sentenze

La parola alle sentenze

Il congresso dell’Associazione nazionale magistrati si è chiuso, quasi fosse il vertice di un grande partito, con una direttiva che suona come un ultimatum agli altri poteri dello Stato, esecutivo e legislativo: abrogare la riforma dell’ordinamento giudiziario. Ai magistrati – almeno alle toghe che guidano le diverse correnti - i principi fissati dal Parlamento, su iniziativa del governo, per modificare un sistema basato su una legge del 1941 non piacciono proprio; non sopportano la divisione delle funzioni fra giudici e pm, l’abolizione delle promozioni automatiche, minimi ed elementari controlli preventivi sulle attitudini alla delicata funzione e una parvenza di controlli sulla «produttività».
La corporazione difende se stessa, difende una degenerazione istituzionale dell’ordinamento repubblicano che ha visto, negli ultimi quindici anni, quella che i timidi chiamano «sovraesposizione» dell’ordinamento repubblicano e i realisti, bollano, invece, come l’imposizione di un irrituale «contropotere» assolutamente non previsto dall’impianto costituzionale, un contropotere per il quale l’Anm diventa un «politburo» e il Csm ambisce a funzionare come «terza Camera».
La stragrande maggioranza degli italiani, come hanno dimostrato alcuni sondaggi, seguono con preoccupazione questo processo degenerativo e hanno la nettissima impressione che le toghe operino in un mondo forse parallelo ma certamente lontano da quello in cui tutti fatichiamo, che si preoccupino soltanto dei loro privilegi e della politica piuttosto che dei disagi della gente. Le cronache, nella loro crudezza, confermano inquietudini e timori. Nelle ultime settimane, proprio mentre le formazioni correntizie delle toghe preparavano documenti e parole d’ordine per il loro congresso con dispendio d’energia e politico fervore, diversi episodi sanguinosi hanno richiamato l’attenzione dei cittadini che si sentono minacciati dalla piccola e grande criminalità. In Umbria, a Umbertide, un carabiniere è stato assassinato da un rapinatore che aveva avuto, chissà perché, un permesso premio. Nell’hinterland di Milano, un altro detenuto in semilibertà ha partecipato all’assalto a un supermercato, dove pure un altro carabiniere è stato ferito. Sempre a Milano, due stupratori sono stati arrestati dopo una violenza e si è scoperto che i due mascalzoni erano stati già individuati per precedenti episodi di violenza sessuale, ma il rapporto a loro carico inoltrato dalle forze dell’ordine era rimasto lettera morta.
Sono soltanto gli ultimi episodi, la nostra quotidianità è segnata dalle maglie larghe, troppo larghe, di una giustizia che è tanto battagliera nelle controversie politiche quanto molle nell’assicurare la certezza della pena.
Il ministro della Giustizia Castelli sostiene che nel nostro Paese ci sono troppi detenuti oggettivamente pericolosi che godono di semilibertà, permessi e altre forme di scarcerazione più o meno facile. Questo dipende certamente dall’impostazione buonista, utopica di certe nostre leggi, ma dipende anche dall’interpretazione burocratica e lassista che di queste norme si è imposta nella magistratura. Talvolta si è sfiorati dal sospetto che certe toghe non siano tanto interessate alla repressione di reati comuni, quelli che fanno soffrire molta gente altrettanto comune, quanto a perseguire colpe, vere o presunte, politicamente rilevanti, di sicuro impatto mediatico. Lo zelo che anima certe inchieste di sicura riuscita per clamore e polemiche non si riscontra nel contenimento del crimine minuto, quello che minaccia le donne in strada, i commercianti nelle loro botteghe, i pensionati nelle loro case.
I cittadini tutto questo lo avvertono e le indagini demoscopiche dimostrano che la credibilità dei magistrati è ai minimi storici; tanti italiani, inoltre, pur senza seguire i tecnicismi giuridici che accompagnano le polemiche sulla giustizia, avvertono istintivamente che i magistrati non sempre sono e si mostrano imparziali; li ritengono espressione di un potere lontano, nel quale è meglio non incappare.
Questa è la situazione.

Invece di lanciare diktat e ultimatum alla classe politica, agli altri poteri dello Stato, i vertici delle correnti della magistratura farebbero bene a tentare di riconquistare il prestigio perduto con una paziente attività di servizio. Magari parlando solo per sentenze, nell’interesse vero del popolo italiano.

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