Le parole vuote di una sinistra fuori dalla storia

Le parole vuote di una sinistra fuori dalla storia

Ruggero Guarini

Nulla come i discorsi che stanno scandendo l'ascesa al potere della sinistra dimostra che una parola può sopravvivere tranquillamente alla sparizione della cosa che designa. Tre piccoli esempi proveranno fino a che punto il linguaggio dei tribuni dell'Unione (come del resto quello dei loro osceni squadristi, dalle ultime imprese dei quali, dopo averli a lungo istigati coi loro arcaici sermoni classisti, tentano goffamente di prendere le distanze) sia appunto pieno di parole che si riferiscono a cose che ormai non esistono più.
1) Esiste ancora una classe operaia come quella di cui parla Bertinotti, che attraverso le parole e il tono con cui l'ha evocata nel suo discorso di insediamento ha mostrato di fingere di credere che il lavoro di fabbrica sia ancora quello della sua giovinezza sindacale, coi lavoratori esposti alle fiamme degli altiforni, o inchiodati alle catene di montaggio, o curvi sui torni e le fresatrici? No, quegli operai non esistono più. Al loro posto, soprattutto nelle fabbriche del Nord (dove fra l'altro il mondo del lavoro, dalla grande maggioranza degli industriali alla quasi totalità dei loro dipendenti, ha dimostrato col voto di preferire all'Unione la Casa delle libertà), ci sono armate di operatori tecnici seduti davanti alle tastiere dei computer, e pertanto ormai funzionalmente (e anche socialmente) indistinguibili da quelli che un tempo venivano chiamati «impiegati di concetto». Ma Bertinotti, questo vispo e loquace rigattiere di avanzi di lotta di classe, continua a evocarli con accenti tromboneschi come se fossero ancora oggi il fiero popolo in marcia nel dipinto di Pellizza da Volpedo.
2) Esistono ancora i «padroni» tirati in ballo da Bruno Ferrante e Guglielmo Epifani, che sbattendo quella parola in faccia a Letizia Moratti per contestarle il diritto di partecipare al corteo del Primo maggio hanno mostrato di fingere di credere che i rapporti fra lavoratori e datori di lavoro si configurino ancora oggi come nei romanzetti sociali dell'Ottocento? No, non esistono più. Al loro posto ci sono industriali e finanzieri che spesso civettano allegramente proprio con le forze politiche che rappresentano, o pretendono di rappresentare, gli interessi dei lavoratori.
Ma i fatui demagoghi come Epifani e Ferrante continuano a pronunciarla, quella parola - «padroni» -, come se designasse tuttora quei grotteschi signorotti di campagna dalle belle brache bianche, e con le tasche piene di palanche, che circa un secolo fa venivano dileggiati nei canti delle contadine padane.
3) Esiste qualche fondata ragione per immaginare che la parola «riforme», così come viene sbandierata dai maestrini del pensiero detto appunto «riformista», abbia ancora qualcosa a che fare col miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori? No, non ne esiste nessuna. La storia ha dimostrato da un pezzo che i miglioramenti decisivi di quelle condizioni sono stati generati dalle conquiste di quell'incessante produttore di innovazioni che è il quintetto capitalismo-scienza-tecnica-democrazia-mercato. Tutti quei maestrini continuano invece a immaginare che il vero riformismo sia quello che zampilla senza posa dalle loro dottissime zucche.


Verba volant, scripta manent - dice l'antico adagio. Ma per la nostra sinistra quel che rimane, mentre tutto il resto se ne vola via, sono proprio le parole. Ecco perché l'aggettivo che più le si addice è appunto «parolaia».
guarini.r@virgilio.it

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