Il passato ritorna sempre. È una "Nuova Atlantide"

Classicità e mito si ripropongono ciclicamente nell'arte figurativa. Come nell'opera di Verlato

La nuova Atlantide di Nicola Verlato
La nuova Atlantide di Nicola Verlato

L'evocazione del mito ha un'attrazione irresistibile. In tempi moderni si consolida con Johann Joachim Winckelmann e Antonio Canova. Teoria e prassi. Nei Pensieri sull'imitazione dell'arte greca in pittura e scultura (1775) del primo si legge: «La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell'espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l'espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un'anima grande e posata». Sono parole che indicano una compostezza e una solennità, un tormento creatore che si compone nella forma. Ed è quello che troviamo, in una compiutezza che non è mai derivata da un modello, in Antonio Canova.

È illuminante vedere che quella che appare la definitiva presa di coscienza della civiltà classica in Canova, un secolo dopo si ritrova in Giorgio de Chirico, la cui origine greca non è soltanto una coincidenza. Il processo critico di de Chirico è à rebours: parte dalla Grecia e arriva in Italia e poi a Monaco. La sua prima piazza metafisica è a Firenze, Enigma di un pomeriggio d'autunno, una rivelazione in piazza Santa Croce, nel 1910. Dal 1911 al 1915 lo troviamo a Parigi con il fratello Alberto e in dialogo con Guillaume Apollinaire, Max Jacob e Pablo Picasso. Allo scoppio della Prima guerra mondiale i fratelli de Chirico si arruolano volontari e vengono inviati a Ferrara, nella villa del Seminario, assegnati al 27º reggimento di fanteria (Giorgio rimase a Ferrara per circa tre anni e mezzo, con l'incarico di scritturale). A Ferrara de Chirico trovò nuove ispirazioni e non dipinse soltanto grandi piazze assolate, ma anche nature morte con elementi geometrici, biscotti e pani (la tipica coppia ferrarese). Savinio e de Chirico strinsero amicizia con Carlo Carrà, anch'egli qui impiegato, con Filippo de Pisis e con Giorgio Rea, misterioso scultore anarchico omosessuale, morto suicida in circostanze poco chiare alle autorità dell'epoca, con grande dolore degli amici. Per parte sua, de Pisis ospitò spesso gli amici nel suo appartamento nel palazzo Calcagnini, in via Montebello, dove all'epoca la famiglia Tibertelli de Pisis abitava (in affitto dal conte Giovanni Grosoli). Verosimilmente l'ambiente colpì molto la sensibilità metafisica dei due fratelli.

A Ferrara non c'è ancora coscienza della grande pittura ferrarese del Quattrocento, ma qualcosa della città entra in de Chirico fino a diventare rinnovata coscienza della classicità dentro l'inquietudine di una solitudine che ispirerà, dopo le Avanguardie, la pittura Metafisica. Scrive de Chirico: «Partivo per Ferrara, partivo per quella città che Burckhardt definì la più moderna d'Europa e che a me si rivelò come la città più profonda, più strana e più solitaria della Terra».

Nella sua Metafisica de Chirico ha introdotto una grande ripresa della pittura italiana, da Giotto a Piero della Francesca, che ha anticipato il Ritorno all'ordine che sarà durante il Fascismo. Nessun fascismo c'è nella sua pittura, ma è presente un senso di distanza dell'uomo, di assenza, che ricorda il pensiero di Montale. La classicità si ripercuote nella pittura di Savinio e, se si vuole considerare l'esperienza di Carlo Belli e di Fausto Melotti una variazione intimistica sul tema della classicità, il ritorno all'architettura classica in Angelo Mazzoni e la statuaria di Adolfo Wildt ci dicono che la storia non è finita e che il ritorno della classicità è periodico, fino a riproporsi nel nostro tempo: un ritorno placato in Mimmo Jodice, attraverso fotografie che accarezzano la memoria dei luoghi: Efeso, Priene, Siracusa, Petra, castello Eurialo, bronzi e marmi romani. È lo stesso Jodice che si misura con Canova, per riprodurne la distanza e la perfezione.

È integro e implacabile, posizionandosi tra Canova e Winkelmann, il ritorno in Carlo Maria Mariani: non è più un ritorno all'ordine, è la ricomposizione di un mondo perduto, una anastilosi nella pittura. Mariani va oltre David e non concede nulla al presente. Il suo neoclassicismo è ricostruito alla luce del Surrealismo, in una continua proiezione del sogno. Nessun dubbio sulla sua distanza dal citazionismo: «il mio lavoro nasce da urgenze di carattere concettuale: per me persino la stesura del colore secondo i metodi antichi è un'operazione teorica». Da qui, con una residua consapevolezza storica, l'affinità con Giulio Paolini. Quale sia la strada, concettuale o pittorica, il punto di arrivo è sempre lo stesso: la necessità dell'antico, la forza dinamica dello spirito classico. Mariani non crede e non vuole che il passato ritorni ma ha nostalgia di quella integrità formale che le Avanguardie hanno minacciato talvolta con spirito iconoclastico, talvolta con spirito terroristico. Il suo neoclassicismo non è ideologico, è sentimentale, è l'Italia veduta da un viaggiatore che viene da lontano, nel suo caso che si allontana per rivederlo. Nostalgia di Paestum, nostalgia di Agrigento, nostalgia di Segesta. Il mondo classico c'è ancora, anche se è un sogno, una visione. La distanza riaccende il mito. La poetica di Mariani, anche rispetto a de Chirico che vive la presenza delle statue nel meriggio delle piazze d'Italia, è la poetica della distanza. Canova c'è. C'è Gaspare Landi. C'è Andrea Appiani. Tutto il resto è altrove.

È la stessa malinconia del pittore che ritroviamo in Salvo. C'è Selinunte, ne sopravvive l'aura; ne è salva la veduta. Salvo non vede il Meridione, sente la Magna Grecia, a colori, sotto il sole, non come ci è stata tramandata, in bianco e nero. Il sole scende sulle colonne, il mare splende, il mito c'è. Tutto il resto è noia. De Chirico non è lontano. Oggi ci si può immergere negli abissi della memoria fluttuando tra le ombre. Ma i frammenti attendono di ricomporsi e hanno bisogno di clamore. La strada è abbandonata ma non è perduta.

La ritrova senza esitazioni Nicola Verlato. Cosa deve temere? Cosa deve risparmiare? Chi lo può rimproverare di dipingere Nuova Atlantide? Quale altra è la realtà, se non questa? Lo dichiara, come in un manifesto, Verlato: «Il dipinto riprende il frontespizio di New Atlantis di Francis Bacon, con le colonne d'Ercole dello stretto di Gibilterra oltre le quali si apre l'oceano atlantico che alcuni velieri affrontano veleggiando verso l'ignoto. Nel dipinto, in primo piano, vediamo il doriforo di Policleto a terra, abbattuto; Michelangelo che si dispera davanti al capolavoro ridotto in frantumi. Sullo sfondo, apparentemente impassibile, Raffaello osserva ciò che accade all'orizzonte: un tornado investe i velieri disperdendo ogni volontà di lasciarsi alle spalle un mondo per fondarne uno nuovo. Atena consola Michelangelo confermandogli di aver scatenato il tornado per punire la distruzione dell'opera d'arte.

Sullo sfondo alcuni si allontanano dalla costa dove si erano recati per assistere alla partenza delle navi: ogni loro entusiasmo è stato dissolto dalla tempesta che si è abbattuta sulle imbarcazioni. Il dipinto è una riflessione sui rischi della nostra civiltà se, in nome di un progresso velleitario, rischia di cancellare la propria identità culturale». Il mito ritorna, la pittura non finisce.

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