La paura cosmica e antimoderna di un solitario nella folla

Moriva ottant'anni fa il maestro dell'orrore. Nelle sue opere creò una mitologia negativa. Ponendo questioni attualissime

La paura cosmica e antimoderna di un solitario nella folla

Se si cerca come ho fatto io poco prima di scrivere questo articolo - «Lovecraft» con Google, il suo algoritmo. come una modernissima Lampada di Aladino, risponde: «circa 13.700.000 risultati»; se si cerca «H.P. Lovecraft» risponde «circa 524.000 risultati», e infine per «Howard Phillips Lovecraft» risponde «circa 481.000 risultati». Insomma, cifre inusitate per uno che viene ancora chiamato «il Solitario di Providence» e che a 29 anni scriveva Breve autobiografia di un povero scribacchino e a 43 anni Alcune note su una Non-entità (testi entrambi in Parola di Lovecraft, Società Editrice La Torre, 2012). Così poca considerazione aveva di se stesso. E invece, a ottant'anni dalla morte per un tumore allo stomaco il 15 marzo 1937, il tempo gli ha dato torto, e fosse ipoteticamente vissuto sino ai nostri giorni sarebbe incredulo e stupefatto di tanta notorietà.

Non solo. Sarebbe allibito nel constatare che il suo cognome, come quello di altri scrittori fondamentali della letteratura mondiale, è diventato un aggettivo qualificativo: come esiste una «situazione kafkiana» o una «personalità pirandelliana», così esiste un «orrore lovecraftiano» o, addirittura, un «mostro cthulhoide», riferendosi alla concezione che egli aveva dell'orrore e ai particolari esseri che aveva descritto. Non basta ancora. Probabilmente si sarebbe vergognato nel rendersi conto di essere diventato lui stesso un personaggio letterario. Non nel senso di avere influenzato narrativa, illustrazione, fumetto, giochi di ruolo, cinematografia e musica, ma proprio lui, Howard Philips Lovecraft, il riservato gentiluomo di Providence, di essere sfacciatamente entrato in romanzi e racconti, mettendosi in mostra come figura che ha ispirato scrittori di tutto il mondo, non soltanto americani, ma anche italiani, con una quantità incredibile di storie dalle trame più diverse che è difficile rendersene pienamente conto. Sicché forse ha ragione il critico americano e suo biografo S. T. Joshi quando scrive che «il più grande personaggio letterario» di Lovecraft è Lovecraft stesso, ma intendendo questa affermazione riferita alla narrativa altrui. HPL era una personalità tale che è passato da autore di storie fantastiche e dell'orrore a protagonista di storie fantastiche e dell'orrore.

Bisognerebbe chiedersi allora il motivo di tutto ciò, e questo perché non consiste soltanto nel fatto di essere stato H. P. Lovecraft il più originale scrittore di un certo genere di narrativa «popolare» del Novecento, ma anche in qualcosa d'altro, qualcosa che evidentemente si nasconde dietro la sua produzione letteraria e riguarda sia il personaggio in sé, sia la sua complessiva visione del mondo che traspare dall'insieme dei suoi scritti.

Come afferma all'inizio dell'Orrore sovrannaturale nella letteratura (1925-1936), HPL riteneva che la maggior fonte di paura fosse l'«ignoto», quel che l'uomo non conosce e non si aspetta e soprattutto la sospensione delle leggi naturali e fisiche, tutti gli avvenimenti che vanno contro di esse. Inoltre, considerava l'uomo non certo il «padrone del creato», ma una minuscola e insignificante particella su un grumo di materia in viaggio nello spazio, un mero accidente della creazione. Infine, era sostanzialmente un rivoluzionario conservatore il quale, partito da posizioni giovanili classiche e reazionarie, alla fine della vita, nel 1936-37, apprezzò il New Deal rooseveltiano, esattamente come lo apprezzava il fascismo all'epoca, in funzione anticomunista e anticapitalista, quale antidoto alla Depressione del 1929, talché S. T. Joshi nel 1979 ha potuto definire il suo un «socialismo fascista», alla stregua di Drieu La Rochelle. Scriveva a un suo corrispondente nel 1929: «Sono un ultra-conservatore, socialmente, artisticamente e politicamente, ma anche un estremo progressista, nonostante i miei trentanove anni, riguardo tutte le questioni di scienza pura e filosofia. Amando la libertà illusoria del mito e del sogno, sono devoto alla letteratura d'evasione; ma amando in egual misura il tangibile ancoraggio del passato, tingo tutti i miei pensieri delle sfumature dell'antichità. Il mio periodo moderno favorito è il diciottesimo secolo; il mio periodo antico favorito è il virile mondo dell'incontaminata Roma repubblicana». In ciò fu perfettamente coerente per tutta la vita, come si può constatare dalle cinquanta lettere pubblicare in L'orrore della realtà (Edizioni Mediterranee, 2007). Un modo di pensare che oggi molti non gli perdonano, condannando con le idee, anti-democraticamente, anche la sua opera letteraria. Non è il primo, non sarà l'ultimo in questi bei tempi.

E dunque, ecco in sintesi l'insieme dei motivi per cui, a differenza di tutti gli scrittori fantastici che lo avevano preceduto, a cominciare da Poe che egli considerava il suo primo maestro, nelle sue opere non vi sono spettri, fantasmi, vampiri, morti che risorgono, lupi mannari, a incutere paura ai lettori, ma ben altro: entità infere e superne non definibili, descrivibili e classificabili, esseri mostruosi che, pur avendo alcune volte caratteristiche a noi note (da pesci o polpi, con ali da pipistrello ecc.) spesso non ne hanno e sono indistinte o senza vera forma, sono giunti eoni fa dalle profondità dello spazio e giacciono sotto i mari o sotto i ghiacci e attendono il momento opportuno per riemergere e riprendere possesso di un pianeta i cui abitanti sono stati plasmati da loro. Da qui l'inconoscibilità e il terrore che da essi promana, la quasi impossibilità di far loro fronte, l'errore di alcuni incoscienti scienziati che studiano materie proibite di volerli richiamare senza avere il potere di controllarli, nonché le trasformazioni orrende cui vanno spesso incontro gli stessi umani se affrontano operazioni blasfeme. L'orrore e la paura erano sempre stati antropocentrici, Lovecraft ha teorizzato e creato un orrore e una paura cosmici.

In più Lovecraft era profondamente anti-moderno, provava disgusto e repulsione nei confronti dei due più evidenti aspetti della modernità, la macchina e la massa: «È impossibile trovare qualcosa di positivo in questa età delle macchine che corrode come un cancro», scrisse a Woodburn Harris il 25 febbraio 1929. Sarà un caso, ma spesso e volentieri nelle sue storie l'orrore si trasmette attraverso i moderni mezzi di comunicazione come il cinema (Nyarlathotep) o il telefono (La testimonianza di Randolph Carter, L'albero sulla collina), per fare due esempi, e questa sua ideologia di fondo, questa avversione per la folla anonima, eterogenea, ottusa si rafforzò dopo la parentesi matrimoniale a Brooklyn nel 1924-25. La città caotica, convulsa, stressante, rutilante di luci e insegne pubblicitarie appariva ai suoi occhi di gentiluomo di provincia come «la fosforescenza di un cadavere in putrefazione» (lettera ad August Derleth del 20 gennaio 1927).

È a questo punto, dopo il trauma dell'«esilio newyorkese», che si fondono e si concretizzano nel suo immaginario i vari filoni narrativi, personali, ideali, filosofici. Che cosa fare di fronte alla devastante modernità? Non è allora assolutamente un caso se, tornato nella natia e amatissima Providence, iniziasse a scrivere i suoi capolavori, tracciando le «vie di fuga»: o evadere da un mondo alieno e incomprensibile in un paese di sogno, o distruggere questo mondo incomprensibile e alieno. Scrisse quindi il romanzo, rimasto inedito sino al 1943, Alla ricerca dello sconosciuto Kadath (1926-27), strutturando la storia in cui il suo evidente alter ego Randolph Carter penetra nella Terra del Sogno alla ricerca della Città del Tramonto affrontando avventure meravigliose e terribili; e i racconti Il richiamo di Cthulhu (1926) e L'orrore di Dunwich (1928), risvegliando o evocando le entità non umane e non terrestri il cui compito è, sostanzialmente e idealmente, distruggere una realtà ormai insopportabile.

Prendevano così avvio quelli che sono stati definiti i Miti di Cthulhu che di recente Giuseppe Lippi ha riunito in un sontuoso volumone (Cthulhu, Mondadori, 2016). Sogno e orrore: quasi una rivalsa sullo stress personale e sociale vissuto in una città emblema di tutte le città. Ma non si tratta di «mostri di cartapesta» (improvvida definizione del pur acuto Giorgio Manganelli), bensì rappresentano, come si disse già quarant'anni fa (H. P. Lovecraft, La Nuova Italia, 1979) il simbolismo del caos che si agita e ribolle sotto il velo di una realtà soltanto in apparenza logica e razionale. HPL, che logico e razionale era e come tale ragionava, lo sapeva benissimo, altrimenti non avrebbe creduto al mito (collettivo) e al sogno (personale) e del sogno non avrebbe fatto una delle fonti principali di alcune sue narrazioni come la serie dedicata appunto a Randolph Carter (in Il guardiano dei sogni, Bompiani, 2007).

Ma non può bastare questo a spiegare la fama del Maestro di Providence. Il fatto è che Lovecraft, come scrissi una volta, è un «nostro contemporaneo»: negli anni Venti e Trenta, infatti, aveva capito tutto e denunciato tutti i mali e i pericoli di cui adesso soffriamo l'acuirsi, primo dei quali la perdita della identità personale e collettiva, dalle basi culturali alla architettura al modo di comportarsi e parlare. Non ce l'aveva con i «negri», come scioccamente dicono i buonisti intolleranti delle idee altrui, ma in generale, semplicemente, con chi stravolgeva un certo tessuto sociale e quindi anche con gli immigrati di pelle bianca, europei (L'orrore a Red Hook, L'abitatore del buio). Non era una posizione ad personam, ma un modo legittimo, soprattutto allora, di vedere la vita di una comunità. Era contro l'incultura diffusa, contro il realismo che uccideva il sogno, contro una scienza priva di etica, contro la mercificazione e Mammona. Tutti problemi del nostro tempo che viviamo sulla nostra pelle.

Scriveva: «L'unica crociata degna dell'individuo illuminato è quella condotta contro tutto ciò che impoverisce l'immaginazione, il meraviglioso, la percezione sensoriale, la vita vissuta intensamente e l'apprezzamento della bellezza: null'altro conta» (lettera a J. F. Morton del 10 febbraio 1923).

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