Il Pd ora rischia l'implosione

Il Pd ora rischia l'implosione

Il partito si sta sciogliendo in solitudine. Nessuno se ne è accorto, fa troppo caldo, è luglio, qualcuno è già andato in vacanza, altri sognano e si vedono al mare. È davvero difficile parlare qui, adesso, del Pd, dei suoi mali, del suo futuro, di Bersani e Franceschini, di chi sarà il prossimo segretario. È una cosa per pochi, per chi si affanna a trovare un senso a questa sinistra delusa, triste, noiosa, senza identità, quel che resta di un’oligarchia vecchia, in debito di personalità, come un vestito marrone in piena estate. Fa quasi pena vedere questo pezzo di sinistra, l’unica che resta, rinsecchirsi al sole di un’estate troppo calda. Ed è un’agonia che dura da oltre quindici anni, tutti consumati in questo antiberlusconismo di pelle e viscere, che è diventato via via un cancro sulla pelle. Il Pd, di fatto, non è nulla. Non ha un’idea. Non ha una storia. Non ha un futuro. È qualcosa che galleggia, come un’alga morta. Forse ha ragione questo grafico pubblicitario, seduto nel caffè di una cittadina dell’Appennino, che liquida il Pd con quattro parole: basta vedere il simbolo. La sua storia è tutta lì, in quel blocco orizzontale tricolore, anonimo, che non dice nulla. Un tempo, la sinistra, aveva qualcosa a cui aggrapparsi: una falce, un martello, un garofano, un sole che sorge. Adesso c’è solo un rametto di ulivo bonsai, rannicchiato, spaventato, insignificante, praticamente inutile. Come si fa a credere a una cosa così mesta? Come si fa a scegliere tra Bersani e Franceschini? Il Pd ha un’identità frammentata, e manca un leader. D’Alema e Veltroni vanno avanti con il loro duello senza fine, personale, fatto di strette di mano e sorrisi acidi. Tutti e due sembrano ormai fuori gioco. La furbizia del primo stanca, la melassa del secondo è indigesta. Ogni tanto arriva qualche personaggio nuovo, figlio dell’ultima battaglia. Ora tocca a Ignazio Marino, il chirurgo amico di Beppino Englaro, ma un grande partito non può riconoscersi solo e soltanto nella «dolce morte». Non può neppure sperare nella fuga di qualche outsider: Debora Serracchiani ha avuto coraggio, ma è una da vittorie di tappe, non ha spalle abbastanza robuste per indossare la maglia rosa. E poi, e questo dovrebbe davvero far riflettere, il nome del futuro segretario non interessa a nessuno. Il sentimento che si respira a sinistra, tra gli elettori, è solo uno: disillusione. Il Pd è senza voti. Non convince come forza di governo. Non è un’alternativa. L’ultimo sondaggio di Renato Mannheimer, pubblicato ieri sul Corsera, è lo specchio di questa delusione. Sei elettori del Pd su dieci pensano che non sappia fare opposizione. Sei su dieci. È il segnale che questo partito sta sprofondando. È come un vecchio palazzo in rovina, ristrutturato più volte, ma sempre male. Ormai stanno crollando anche gli architravi. Basta andare a Bologna, lì dove c’è il cuore della sinistra italiana, in quell’Emilia dove la Lega sta rosicchiando territori e città, come in una partita a Risiko. Che fare? Cambiare. E così ci si illude che basta far fuori il segretario del partito a Bologna per frenare i «barbari» padani. Andrea De Maria è l’uomo da far fuori, da mandare a casa, da sostituire. È quello che vogliono i parlamentari e i vertici di Roma. Ma è difficile pensare che la riscossa arrivi da lì. Forse è solo un segnale, come dice l’onorevole Donata Lenzi: «Sì, sì, sì. Secondo me a Bologna serve un cambio del segretario. Vorrei provare l’ebbrezza di avere un segretario che nella vita abbia timbrato almeno una volta il cartellino». Il Pd sta implodendo e Bologna rischia di essere, se non lo è già, il buco nero che inghiottirà tutto il rosso stinto. Eccolo, il problema. Il Pd non sa più a chi parlare. L’ultimo stratagemma architettato ha poco a che fare con la politica. È il disperato tentativo di buttare giù Berlusconi con le foto di Villa Certosa, con il gossip, con Noemi e la D’Addario, con gli schizzi di fango, costi quel costi, come un pugile alle corde che cerca di liquidare l’avversario con un colpo sotto la cintura. È andata male. Berlusconi non è caduto e il colpo basso, come un boomerang, è tornato indietro. Oggi la sinistra è più debole di ieri. E l’unico risultato ottenuto è lo scollamento tra classe politica e il resto del Paese. Prima o poi in Italia vincerà davvero il partito del non voto, come un 8 settembre, come un tutti a casa. La classe dirigente del Pd è convinta che il suo problema sia Berlusconi. È un’ossessione, che devasta tutto, come accade a quei folli che affogano nel proprio odio. Non c’è più ragione, esiste solo il nemico. Alla fine ti mancano le parole. Il Pd poteva sfruttare la crisi, ma non sa che dire. L’unico messaggio che arriva a chi non vede la fine del mese è: mangiate equo e solidale. È la versione politicamente corretta delle brioche. Ed è così con tutti. La scuola fa schifo, l’università è in mano ai baroni. E il Pd che dice? Fermi. State fermi, non si tocca nulla. Il Pd è la poetica del non detto. Non sa cosa dire ai precari. Non sa cosa dire a commercianti e artigiani. Non sa più cosa dire a industriali e operai. Non sa cosa dire a chi crede e a chi non crede.

Non sa cosa dire ai giovani e ai vecchi. Il Pd non sa, non fa, non sente. L’unico messaggio che arriva urbi et orbi è: Berlusconi. Sono più di quindici anni che la sinistra italiana parla di Berlusconi. Forse il problema è tutto lì.

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