Pecchinenda: "Siamo nell’epoca del gioco e quindi giocare è roba seria"

"Anche il lavoro è diventato ludico, grazie ai computer. Siamo abituati a fare cose rischiose ma solo per finta e ci piace il tutto e subito, vogliamo gratificazione"

Pecchinenda: "Siamo nell’epoca del gioco e quindi giocare è roba seria"

Siamo nell’epoca dell’homo ludens, e il gioco domina ormai tutta la nostra esistenza, tanto che i grandi generi di intrattenimento del passato, come la musica e il cinema, stanno perdendo colpi sotto la pressione di videogame sempre più interattivi, capaci anche di competere con i vecchi giochi di movimento (vedasi la tecnologia kinect et similia)? L’abbiamo chiesto a Gianfranco Pecchinenda, uno dei più importanti sociologi italiani che da anni si dedica proprio a studiare la sfera ludica e soprattutto i videogame - tra i suoi saggi ricordiamo Videogiochi e cultura della simulazione (Laterza) e Il foglio e lo schermo (Ipermedium libri) - ed insegna all’università Federico II di Napoli.
Professor Pecchinenda: videogame che vendono milioni di copie, giochi sui telefoni e alla televisione... La nostra è un’epoca in cui tutto è diventato gioco?
«Sì e lo è molto più di quanto dicano gli indicatori che lei mi ha appena citato. Il dominio del gioco è un fenomeno molto più diffuso e profondo».
Si spieghi...
«La digitalizzazione ha cambiato anche l’approccio sui nostri oggetti di lavoro. Moltissimi strumenti professionali, ormai digitali, hanno alla base meccanismi più propri della sfera ludica che di quelle attività un tempo considerate “serie”... Le faccio un esempio: una volta un architetto si chiudeva in studio e perdeva ore a fare calcoli complessi. Adesso manipola un disegno in AutoCad e la parte di calcolo la fa la macchina. È molto più ludico, servono abilità diverse...».
Succede in molte altre professioni?
«Dal pilota d’aereo che usa il simulatore ai medici che possono simulare l’artroscopia... La caratteristica del gioco è la reversibilità, l’assenza di conseguenze. Nel mondo moderno la separazione tra quest’ambito e la “realtà” è sempre più labile. Quindi non conta tanto quanto sia diffuso il videogioco - che è diffusissimo -, conta il fatto che sia un “cavallo di Troia” della cultura della simulazione. Insomma, il gioco è diventato una cosa seria, o almeno qualcosa con cui possiamo fare cose serie».
E quali sono gli effetti più evidenti di questo predominio della «parte ludica»?
«L’effetto positivo è che si può diventare bravi a volare senza far schiantare un aereo. Un altro effetto che può avere ricadute interessanti sulla struttura sociale è che, generalmente, con queste nuove tecnologie sono più bravi i giovani, e questo può portare a un’inversione dell’autorità generazionale... L’idea o la sensazione che tutto è reversibile può avere effetti più negativi. Anche l’idea che tutto per forza deve essere piacevole, attraente come il gioco, può avere delle conseguenze. Anche perché questi modelli si diffondono, poi, nella sfera dei sentimenti».
Cambia anche il modo di apprendere?
«Sì. Libro, film, tv sono mezzi che presuppongono un’utenza passiva. Il videogioco prevede l’interattività. E se è vero che “facendo” si apprende molto di più, bisogna anche calcolare gli effetti negativi. Tu porti un ragazzino allo stadio e scopri, magari, che si annoia... Quella è realtà, lui è abituato all’iper-realtà, alla realtà aumentata».
Insomma siamo portati all’immediatezza è al coinvolgimento totale.
«Sì, anche se è difficile dare un giudizio di valore su questi fatti. La tecnologia cambia in fretta. Adesso ci sono anche giochi elettronici in cui si usa tutto il corpo e si suda. Alla faccia di chi diceva che il videogioco ci avrebbe schiavizzati sul divano. Però il rischio che ci si abitui ad apprezzare solo ciò che gratifica subito, l’“effetto gratta e vinci” potremmo chiamarlo, beh, quello c’è. E se una cosa non ci gratifica subito, cambiamo oggetto e il nostro livello d’attenzione crolla».
Accade soprattutto ai più giovani?
«I giovani sono rapidissimi ad apprendere giochi con un livello di interattività alto e nel futuro saranno premiati, lavorativamente, quelli che svilupperanno un sistema percettivo adatto a interagire con gli schermi. Tolto questo cambiano moltissime cose...

Ho sentito poco tempo fa dire a un insegnante elementare, durante una riunione con i genitori, che la cosa più importante non è che i bambini imparino subito a scrivere e a leggere, ma che a scuola si divertano, perché quello è il presupposto per imparare. Questo mostra quanto sia cambiato il modo in cui ci si rapporta ai più piccoli. Entro certi limiti non è un modo sbagliato, ma bisogna evitare che la gratificazione diventi l’unico parametro...».

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