È difficile accettare la fine di un’era, doversi rassegnare al fatto che niente sarà più come prima. Per questo, molte volte e persino contro ogni logica, ci si aggrappa alla speranza che almeno un solo frammento di quel mondo passato possa essersi salvato. Per chi sopravvive al tramonto di un’epoca rappresenta la testimonianza di ciò che è stato, ma anche l’illusione che il tempo possa tornare indietro. In tal senso è emblematica la storia postuma della granduchessa Anastasia (1901-1918), quarta figlia dell’ultimo zar di Russia Nicola II (1868-1918) e della zarina Alessandra Fёdorovna Romanova (1872-1918). Davvero Anastasia riuscì a sfuggire alla strage di casa Ipat’ev, oppure si tratta solo di una storia romantica e piena di nostalgia?
Un’altra figlia femmina
Quando Anastasia nacque, nella reggia di Peterhof, i genitori non furono esattamente al settimo cielo. L’impero aveva bisogno di un erede maschio e la bambina era la quarta femmina avuta dalla coppia. Una delusione che, però, non incise affatto sull’affetto che i sovrani nutrivano nei confronti della bambina. Si può dire tutto dello zar e della zarina, del resto commisero molti errori dal punto di vista politico, ma non che fossero genitori insensibili. La loro era un’unione felice e riuscita e la famiglia dell’ultimo sovrano russo fu unita fino alla fine. Anzi, si potrebbe addirittura dire che Nicola II fosse più bravo nel ruolo di padre che in quello di zar. Alcuni storici ritengono che non fosse portato per un compito così importante, che non avesse il carattere giusto per governare.
Eppure nessuno, all’inizio del Novecento, pensava che i Romanov sarebbero stati destituiti, andando incontro a un destino tragico e crudele. Lo zar era ancora ben saldo sul trono, nonostante i moti di protesta che scuotevano il suo impero. Proprio per festeggiare la nascita di Anastasia, l’imperatore concesse l’amnistia agli studenti che avevano manifestato contro di lui a Mosca e San Pietroburgo nell’inverno precedente.
La sua quartogenita era una bambina sveglia, brillante, simpatica, sempre in vena di fare scherzi, forse la più vivace tra le granduchesse figlie di Nicola e Alessandra. Tuttavia né lei né le sue sorelle crebbero tra agi eccessivi. I genitori imposero loro un’educazione sobria, modesta, fondata sulla riservatezza e sulla consapevolezza del mondo che le circondava al di fuori dei palazzi reali. Le granduchesse, per esempio, dovevano pulire da sole le loro stanze e trattare i domestici con rispetto. Non erano ammessi capricci o comportamenti impudenti.
Anastasia, purtroppo, soffriva di dolori alla schiena, di alluce valgo ed era portatrice sana del gene dell’emofilia, (malattia che colpì lo zarevič Aleksej, nato tre anni dopo la granduchessa) trasmessole dalla bisnonna materna, la regina Vittoria. La zarina Alessandra, infatti, era una delle nipoti dirette della sovrana, in quanto figlia di Alice di Sassonia, terzogenita di Vittoria e Alberto.
Nel 1915, in piena Prima Guerra Mondiale, Anastasia, le sue sorelle e la zarina, su concessione di Nicola II, riconvertirono parte del Palazzo d’Inverno in un ospedale, lo Tsarevič Aleksej Nikolaevič, e curarono personalmente, insieme allo staff medico e paramedico, i feriti. L’istituto rimase in attività fino al 1917, quando i bolscevichi decisero di chiuderlo.
Abdicazione e prigionia
Le proteste contro la monarchia si intensificarono, fino a sfociare nella Rivoluzione russa del 1917, l’inizio della fine per la dinastia Romanov, che nel 1913 aveva celebrato 300 anni. Il disastroso conflitto con il Giappone (1904) e la Prima Guerra Mondiale avevano stremato la Russia, ma Nicola II, arroccato sulle sue convinzioni basate sui principi dell’autocrazia, aveva perso da molto tempo il contatto con la realtà, rifiutandosi di credere che la sua popolarità fosse miseramente crollata e di vedere che il Paese aveva bisogno di profonde riforme. Lo zar riteneva di regnare per diritto divino e nel 1905, quando venne costretto a istituire la Duma (assemblea rappresentativa), fece di tutto per limitarne i poteri.
Nel marzo 1917 Nicola abdicò in favore del fratello Mikhail, ma non bastò. Per i bolscevichi la famiglia imperiale era un problema, poiché la sua stessa esistenza poteva rappresentare un simbolo per quanti speravano che lo zar tornasse sul trono. Così gli ultimi Romanov vennero fatti prigionieri e trasferiti a Tobol’sk, Est degli Urali. Nicola II e la famiglia erano ancora circondati dai loro servitori, l’esilio non sembrava così difficile e in quei giorni avevano ancora la speranza (ma sarebbe meglio dire l’illusione) di poter tornare a casa, o magari di potersi trasferire in Crimea. Le cose cambiarono con il trasferimento a Ekaterinburg, città ostile allo zar. I Romanov furono portati a casa Ipat’ev, dove le condizioni di prigionia si inasprirono e venne decisa la loro sorte.
La fine dei Romanov
Nicola II e la sua famiglia dovevano morire, poiché simbolo dell’autocrazia secondo il pensiero bolscevico. Fu Jakov Jurovskij, capo dei carcerieri di Ipat’ev, a orchestrare la strage. La notte del 16 luglio 1918, all’una e trenta, l’uomo informò Nicola II, la moglie e i figli che l’esercito rosso e quello bianco (rispettivamente i bolscevichi e le armate fedeli allo zar, che combatterono la guerra civile russa dal 1918 al 1921) stavano per arrivare in città, perciò sarebbe stato meglio andare via di lì. Ne andava della loro stessa sicurezza. Era una trappola. Jurovskij condusse i Romanov nel seminterrato dell’edificio. Nicola II, portando in braccio Alekseij, scese le scale non sospettando minimamente ciò che lo attendeva.
Una volta riunita la famiglia e alcuni servitori, Jurovskij lesse la loro sentenza, citata da storica National Geographic: “Il praesidium del soviet regionale, adempiendo al volere della rivoluzione, ha decretato che l’ex zar Nicola Romanov, colpevole di innumerevoli, sanguinosi crimini contro il popolo, debba essere fucilato”. La famiglia imperiale non ebbe neppure il tempo di rendersi conto di ciò che stava accadendo: il plotone d’esecuzione cominciò a sparare. Alla fine rimasero illese solo le figlie dello zar. Non fu un miracolo: i gioielli che avevano cucito nei loro abiti fecero loro da scudo.
Le guardie le attaccarono con baionette, “armi da taglio e a mani nude”, scrive ancora Storica National Geographic. Dopo 20 minuti di inferno erano tutti morti. I corpi dell’erede Aleksej e della sorella Maria vennero gettati nella foresta circostante, gli altri sepolti poco lontano dopo essere stati cosparsi di acido. I sovietici confermarono la strage solo nel 1926 e nel 1977 casa Ipat’ev venne demolita perché ufficialmente ritenuta “priva di valore storico”.
Anastasia è viva?
Nel 1920 una donna venne ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Dalldorf. Era stata appena recuperata dal canale Landwehr, dopo un tentativo di suicidio. Si rifiutava di parlare e di dire il suo nome. Quando, raramente, apriva bocca, la sua voce aveva un accento strano, forse russo secondo medici e infermieri. Nel 1922 un’altra paziente dell’ospedale, di origini russe, sostenne che la sconosciuta fosse Tatiana, la secondogenita di Nicola II e di Alessandra. Solo allora la ragazza ruppe il silenzio e dichiarò di essere Anastasia Nikolaevna Romanova.
Gli esuli russi erano sgomenti e ben presto si spaccarono in due fronti opposti Per alcuni la donna che sosteneva di essere Anastasia diceva la verità, per altri era solo “un’isterica”, “un’avventuriera”. I più scettici accusavano i più speranzosi di non voler vedere la realtà, di essere affascinati dall’idea che la granduchessa fosse viva, non si erano rassegnati alla fine dei Romanov. Al contrario chi credeva alla sconosciuta portava come argomentazioni delle presunte prove: la donna aveva gli stessi occhi di Anastasia e soffriva di alluce valgo come lei, ricordava particolari della vita famigliare a corte che nessuno poteva conoscere. Inoltre entrambe avevano la stessa calligrafia. Certo, la sconosciuta non parlava russo, ma mostrava di capirlo.
Queste non sono prove. Sono espedienti usati per creare una messinscena e possono essere smontati facilmente: qualche somiglianza fisica, come pure un problema come l’alluce valgo, possono essere semplici coincidenze. Non bastano per identificare con certezza una persona. Lo stesso vale per le calligrafie di Anastasia e della donna, che possono presentare delle somiglianze. I dettagli relativi a eventi, date, abitudini della famiglia Romanov si possono trovare nei libri. La conoscenza del russo, invece, non si può fingere: una lingua o la si parla (seppur a diversi livelli), o non la si parla. Anastasia era madrelingua russa, la sconosciuta evidentemente non aveva tali competenze e non poteva certo fingerle. Non è riuscita nemmeno a mascherare questa lacuna con la scusa di un trauma. Anzi, quando le veniva chiesto in maniera più dettagliata del suo passato, o di parlare russo, iniziava a piangere.
C’è un’altra stranezza: il figlio del dottor Botkin, medico dello zar morto con lui in casa Ipat’ev, giurò che la paziente dell’ospedale psichiatrico fosse Anastasia. Eppure lui aveva conosciuto la granduchessa, erano stati amici. Possibile che non si fosse accorto dell’inganno? Qualcuno insinuò che riconoscimenti così avventati, fin troppo sicuri, fossero stati studiati per accaparrarsi i beni dei Romanov. Inoltre la fama proveniente da libri e interviste alla “rediviva Anastasia” avrebbe fruttato parecchio denaro. Nessuno sa se questa sia la reale motivazione che spinse alcuni esuli russi a riconoscere nella donna di Dalldorf la granduchessa di Russia. Tuttavia a volte capita di vedere solo ciò che si vuole vedere e non la realtà per ciò che è.
Mistero risolto
Nel 1927 un giornale tedesco sostenne che la presunta Anastasia si chiamasse, in realtà, Franziska Schanzkowska e che fosse un’operaia polacca data per dispersa dopo un’esplosione avvenuta nella fabbrica in cui lavorava. Persino suo fratello, Feliks, confermò questa versione dei fatti. Invece Franziska (che assunse lo pseudonimo di Anna Anderson) la negò con forza, dichiarando fino alla sua morte, nel 1984, di essere la quartogenita dell’ultimo zar di Russia.
Il mistero venne definitivamente svelato negli anni Novanta. Nel 1991 furono trovati i resti dei sovrani, di Olga, Tatiana e Anastasia (Aleksej e Maria vennero trovati nel 2007). Nel 1994 i resti della granduchessa vennero comparati con un campione biologico della Anderson. Il Dna non poteva mentire: Anna non era Anastasia. Non era la prima che una persona tentava di convincere il mondo intero di essere uno degli ultimi Romanov.
Il nome Anastasia vuol dire “resurrezione”, ma non vi fu alcun tipo di rinascita per la figlia dello zar, né per la sua famiglia e tantomeno per la monarchia russa. Anastasia morì in una notte di luglio a Ekaterinburg e questa è una certezza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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