Sono passati ottant’anni dalla morte di Mafalda di Savoia (1902-1944) nel lager di Buchenwald. La storia della sua breve vita lascia emergere il ritratto di una donna con uno spiccato senso del dovere, generosa e altruista. Una personalità indipendente, coraggiosa al punto da sfidare Hitler. La sua fine, però, resta avvolta nel mistero. Non sono le informazioni a mancare: conosciamo la dinamica dei fatti che portarono al decesso. Quel che non possiamo dire con certezza è se tali eventi vennero, in qualche modo, “favoriti” da quanti avrebbero avuto interesse a eliminare Mafalda.
“Brillante e altruista”
Mafalda di Savoia era la secondogenita di Re Vittorio Emanuele III e della regina Elena del Montenegro. Dalla madre la principessa apprese la sensibilità verso l’arte e verso il prossimo. Come ha spiegato il condirettore di Famiglia Cristiana (e guida del comitato che chiede la beatificazione della sovrana Elena), Luciano Regolo, citato da Oggi, “Mafalda era una donna vivace e brillante come la madre. Aveva mille interessi, era amante delle auto da corsa, era tifosa della Lazio, suonava l’arpa, dipingeva e amava l’archeologia. Ma il tratto che la rendeva più somigliante alla madre era l’altruismo, la capacità di anteporre alle proprie esigenze quelle degli altri. Cosa che ha fatto fino alla fine, anche all’interno del lager”.
Già durante la Prima Guerra Mondiale la principessa aveva l’abitudine di seguire la regina Elena negli ospedali, per far visitata ai soldati feriti e dare loro conforto. Esperienza, questa, che forgiò la sua forza di volontà e il senso di responsabilità nei confronti del suo ruolo e degli altri. Il 23 settembre 1925, a Racconigi, Mafalda sposò il principe tedesco Filippo, langravio d’Assia Kassel (1896-1980), nipote dell’imperatore Federico III di Germania. La coppia ebbe quattro figli.
Nel 1930 Filippo si unì al partito nazista e nel 1933 Hitler lo nominò governatore della provincia d’Assia Nassau e ufficiale delle SS. Fu proprio il principe, inoltre, a fare da tramite nelle relazioni diplomatiche tra Italia e Germania. Una posizione delicata, decisamente pericolosa: quando l’armistizio venne reso pubblico, l’8 settembre 1943 (era stato firmato il 3 settembre), Filippo venne arrestato e trasferito nel campo di concentramento di Flossenbürg con l’accusa di aver collaborato con Vittorio Emanuele III alla destituzione e all’arresto di Mussolini (sostituito da Badoglio), avvenuti il 25 luglio di quell’anno.
Nel 1945 il langravio d’Assia Kassel fu trasferito a Dachau e poi in Val Pusteria, dove venne liberato dagli Alleati, i quali lo imprigionarono di nuovo a Capri, per poi rilasciarlo nel 1947. Tra l’8 e il 9 settembre, come documentato dalle fonti storiche, il Re, la Regina, il principe Umberto II di Savoia e Pietro Badoglio scapparono verso Brindisi, temendo la rappresaglia tedesca e la presa di Roma. La sciagurata fuga, che costò anche il conseguente disorientamento delle truppe italiane, rimane una macchia indelebile sulla storia del Casato. Va anche aggiunto che, proprio perché si tratta di una ferita aperta, molti (non solo studiosi) dibattono ancora oggi sulle cause e sulle conseguenze di questo abbandono, a volte schierandosi in fazioni opposte.
“Sliding Doors”
In quel frangente la principessa Mafalda si trovava a Sofia, in Bulgaria, a quanto pare all’oscuro di tutto, anche della deportazione del marito. Stava aiutando sua sorella Giovanna, che assisteva il marito, lo zar Boris III, nelle sue ultime ore di vita (la sua morte è un vero giallo, visto che Boris iniziò a sentirsi male dopo aver avuto un incontro con Hitler e c’è sostiene che il sovrano sarebbe stato avvelenato proprio per ordine del fuhrer).
Mafalda seppe dell’armistizio solo quando era già sul treno che l’avrebbe riportata in Italia dopo il funerale di Boris, deceduto il 28 agosto: era notte, stava attraversando la Romania, quando la regina madre Elena di Grecia e Danimarca, madre di Michele I di Romania, avrebbe fatto fermare il suo convoglio, per informarla di ciò che stava accadendo a Roma. Sembra che la sovrana abbia insistito affinché Mafalda rinunciasse al proposito di rientrare, rammentandole i pericoli che correva. Non vi riuscì.
Mafalda voleva rivedere i figli ed era convinta che Hitler non avrebbe mai alzato un dito contro di lei, figlia del Re d’Italia, moglie di un principe tedesco e ufficiale delle SS. Si sbagliava. Forse peccò anche di ingenuità. Non è chiaro per quale motivo la principessa non venne informata per tempo dei fatti che stavano stravolgendo l’Italia e imprimendo una direzione ben precisa alla guerra. Una delle ipotesi più accreditate riguarda il presunto timore di Vittorio Emanuele III che la figlia potesse rivelare al marito Filippo il piano dell’armistizio.
Questo silenzio, forse comprensibile da un punto di vista politico, è assolutamente discutibile sul piano umano e, comunque, non mancavano stratagemmi e accorgimenti per poterlo evitare, anche solo parzialmente, nonostante la concitazione di quei giorni. Senza contare un fatto evidente: la principessa da sola, a Roma, era la preda perfetta per Hitler, che non aspettava altro per vendicarsi di quello che considerava “il tradimento italiano”. In ogni caso la scelta di Mafalda di tornare a casa, pur sapendo la verità, rappresenta una di quelle “sliding doors” capaci, in un attimo, di cambiare per sempre un’intera esistenza.
La trappola
Mafalda di Savoia giunse a Roma il 22 settembre 1943. A Città del Vaticano rivide tre dei suoi figli, Elisabetta, Enrico e Ottone (il primogenito Maurizio era in Germania), presi in custodia da Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Il giorno seguente scattò la trappola preparata per lei dal comandante delle SS Herbert Kappler (tra i colpevoli del rastrellamento del ghetto di Roma, nel 1943 e dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, nel 1944): "l’operazione Abeba” (dal nome di Addis Abeba, la capitale d’Etiopia di cui Vittorio Emanuele III era imperatore).
La principessa venne attirata al comando tedesco con il pretesto di una telefonata da parte del marito (che, invece, era già stato deportato). Una volta arrivata fu arrestata dalla Gestapo con l’accusa di attività sovversiva. Un aereo la portò prima a Monaco di Baviera, poi a Berlino e, infine, nel campo di concentramento di Buchenwald.
La baracca numero 15
Mafalda venne portata nella baracca numero 15, destinata ai prigionieri politici e le fu imposto di non rivelare a nessuno la sua identità. Da quel momento in poi, per tutti, sarebbe stata solo Frau Weber. I nazisti, comunque, non le risparmiarono il nomignolo umiliante di “Frau Abeba”. Benché alla figlia del Re d’Italia venisse riservato un trattamento migliore rispetto a quello riservato agli altri prigionieri, le condizioni di vita in un campo di concentramento rimanevano precarie e difficili.
Stando alle biografie la principessa soffrì molto il freddo, che minò il suo fisico già delicato. Nonostante ciò, anche in quella triste situazione tra l’incertezza e la paura, la sua indole sensibile e generosa riuscì a trovare un varco: a quanto pare Mafalda mangiava solo il necessario per tenersi in vita e chiedeva che tutto il resto venisse diviso tra gli internati. Non si lamentava ei suoi pensieri erano rivolti sempre alla sua famiglia.
Il bombardamento
Alla fine dell’agosto 1944 Buchenwald venne bombardato dalle forze anglo-americane. Rimasero uccisi quattrocento prigionieri, ha riportato il magazine Hello. La baracca numero 15 venne colpita e la principessa rimase sotto le macerie. Venne ritrovata da due prigionieri e portata nell’infermeria della casa di tolleranza del campo. Vi rimase per quattro giorni, senza ricevere cure, totalmente abbandonata a se stessa e in agonia. Il braccio sinistro, gravemente lesionato, andò in cancrena.
Solo dopo interminabili tormenti Mafalda venne operata. A praticare l’intervento, però, fu il medico Gerhard Schiedlausky, condannato e impiccato ad Amburgo nel 1947 per i terribili “esperimenti” praticati sui detenuti di Buchenwald. La figlia del sovrano rimase sotto i ferri per un tempo lunghissimo, estenuante. Il braccio le venne amputato, ma ormai aveva perso troppo sangue. Venne di nuovo abbandonata nell’infermeria. Morì il 28 agosto 1944, a soli 42 anni. Le sue ultime parole, prima di lasciare questo mondo, furono per la famiglia e per l’Italia, come riporta il sito “Santi e Beati”: “Italiani, io muoio, ricordatemi non come una principessa, ma come una vostra sorella italiana”.
Disumanità e premeditazione
Molte cose non tornano nella ricostruzione delle ultime ore di vita di Mafalda di Savoia. Per quale ragione la principessa non è stata soccorsa immediatamente dopo essere stata portata in infermeria? Perché il medico del campo ha atteso quattro interminabili giorni prima di operarla, lasciando addirittura che il braccio andasse in cancrena? Le fonti biografiche, poi, concordano sul fatto che la durata dell’intervento sarebbe stata eccessiva e avrebbe causato una gravissima emorragia, forse fatale.
Il sito Royal Central ha definito l’operazione “maldestra”, termine che può avere diverse interpretazioni: Schiedlausky potrebbe aver atteso tutto quel tempo prima di aiutare la principessa e aver compiuto un intervento da macellaio per puro sadismo e disumanità. Non sarebbe la prima volta che sentiamo storie simili sui lager nazisti.
L’ipotesi, però, non regge, perché Mafalda di Savoia era un personaggio troppo in vista (il ragionamento è tremendo, perché parliamo di vite umane, ma purtroppo questo era il “modus operandi” dei nazisti): il suo destino nel campo di concentramento non poteva essere deciso da un semplice medico, né essere il risultato esclusivo di negligenza portata alle estreme conseguenze, di uno sfregio al più nobile scopo della professione medica, ovvero curare chi soffre.
Più verosimile è l’ipotesi secondo cui Hitler avrebbe ordinato l’assassinio: a quanto pare, infatti, né il fuhrer, né il suo braccio destro e ministro della propaganda Joseph Goebbels si fidavano di Mafalda. La consideravano una minaccia per la Germania, notando nel suo atteggiamento chiari segnali di ribellione ai folli ideali nazisti. Addirittura, come ha sottolineato Royal Central, Hitler la definì “la peggiore carogna della famiglia reale italiana”, mentre nei suoi diari Goebbels si spinse oltre, reputandola “la peggior p… dell’intero casato reale italiano”.
Non è chiaro, però, quando sarebbe stato dato l’ordine di eliminare Mafalda: forse la sua fine era già stata decisa il giorno in cui entrò a Buchenwald, ma non era ancora stato approvato il modo migliore secondo il fuhrer. In tal senso il bombardamento avrebbe offerto ai nazisti un’occasione irripetibile per sbarazzarsi di lei senza quasi destare sospetti. Oppure, sempre per lo stesso motivo, la sentenza di morte potrebbe essere arrivata dopo il bombardamento.
Il radiologo Fausto Pecorari, internato a Buchenwald, sostenne con forza la tesi secondo la quale Mafalda di Savoia sarebbe stata operata in ritardo di proposito e che tale scempio no sarebbe stata una novità nel campo, soprattutto quando si trattava di personalità importanti e scomode.
In ogni caso la morte della principessa appare come un omicidio forse premeditato, ma in un certo senso ambiguo, subdolo nella sua attuazione. Non è il classico assassinio con un’arma, o con un veleno, per esempio.
O meglio, le armi del delitto sarebbero la mano del medico e gli incomprensibili ritardi. Non abbiamo prove inconfutabili, tangibili, ma tanti, pesanti indizi e un movente, ovvero l’odio di Hitler nei confronti della principessa Mafalda, della sua famiglia e dell’Italia.
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