Se il Manzoni raccontava la «rivolta del pane», se il generale Bava Beccaris represse a cannonate la «protesta dello stomaco», oggi siamo a un passo dalla guerra per un altro tipo di grano: quello turco, il mais. Non è una battaglia sulla quantità, non esistono carestia o siccità. È questione di prezzo che precipita. Coldiretti e Confagricoltura sfornano statistiche drammatiche e alzano grida di dolore; i coltivatori non sanno più come fare per chiudere i bilanci almeno in pari.
La Borsa merci telematica registra quotazioni in calo in tutti i principali centri di commercio nazionali all'ingrosso. Oggi il valore medio del granturco è di circa 196 euro la tonnellata. Le speculazioni finanziarie sulle materie prime agricole contribuiscono a deprimere i prezzi: a Parigi il «future» di agosto cioè il valore atteso ha chiuso a livelli nettamente inferiori (171 euro) mentre a Chicago, riferimento del commercio mondiale di prodotti agricoli, addirittura a 125 euro circa. La crescita della produzione mondiale non aiuta a sostenere prezzi che a questi livelli non remunerano i costi di produzione. Si aggiunge il calo della domanda interna destinata alla zootecnia (il mais è l'alimento base dei mangimi animali) perché la discesa del prezzo del grano tenero destinato a foraggio lo rende più competitivo. A luglio Assomais ha rilevato ribassi di 3 euro la tonnellata a Milano e 4 a Bologna.
I terreni coltivati a mais diminuiscono irreversibilmente. L'Italia contava 1.100.000 ettari nel 2006 oggi ridotti a 730mila: un terzo in meno. In Lombardia la superficie è scesa del 14 per cento nel breve arco del biennio 2014-16, da 365mila ettari a 314mila, e in Emilia Romagna è crollata dai 112.500 del 2006 ai 77.500 del 2015 (-31 per cento in 10 anni) parallelamente ai terreni destinati a grano (da 152mila a 136mila ettari nel 2014-15). Nel Veneto il cereale che è la prima coltura regionale avendo nutrito generazioni di «polentoni» sta scomparendo: quest'anno è stata seminata la metà dei campi rispetto a 15 anni fa e si stima un ulteriore calo del 10 per cento per i prossimi 12 mesi.
Il grano, che oggi costa meno di trent'anni fa, condivide lo stesso tragico destino: mais al Nord, frumento al Sud, tutta l'Italia che coltiva cereali vive una crisi profondissima. Alla Borsa merci di Chicago il grano duro (per la pasta) vale 18 centesimi al chilo mentre quello tenero (per il pane e i prodotti da forno) ancora meno: 16 centesimi. L'Italia è particolarmente penalizzata dai prezzi dei mercati internazionali. Dieci anni fa le quotazioni del grano viaggiavano sui 50 centesimi al chilo: nella campagna 2016 il grano tenero è precipitato a 15 (150 la tonnellata).
Il paradosso è che l'Italia, primo produttore al mondo di pasta, rappresenta anche il primo importatore di frumento. Quantità che continuano a salire: secondo la Coldiretti in un anno gli acquisti di grano tenero in Ucraina sono aumentati del 315 per cento. L'import complessivo di grano è cresciuto del 14 per cento nel solo primo trimestre del 2016 rispetto a 12 mesi prima. Più della metà del pane in vendita nel nostro Paese e oltre un pacco di pasta su tre sono «made in Italy» per la località di produzione, ma la materia prima è straniera: Canada, Stati Uniti, Europa dell'Est, Russia.
Campagne in abbandono, dunque? Tutt'altro. In questi mesi gli agricoltori hanno approfittato di una modifica decisa dall'Unione europea - al sistema che regola l'impianto di nuovi vigneti. Fino all'anno scorso occorreva possedere o acquistare i diritti di impianto; dal 1° gennaio invece è sufficiente avere un'autorizzazione, gratuita, del ministero dell'Agricoltura. Così i coltivatori di polenta e grano si stanno trasformando rapidamente in vignaioli.
Là dove c'erano le spighe cresceranno le viti. Il caso del Veneto è eclatante: nell'elenco delle aziende che potranno piantare nuovi vigneti, le maggiori sono cerealicole. E il mercato che le attende è molto promettente.
Quello del Prosecco, per esempio: 945mila ettolitri nel 2009, quasi tre milioni e mezzo nel 2015 e previsioni di un futuro ancora più roseo. Dal mais alla vite, da una monocoltura a un'altra. Meno polenta e più vino. Per un'abitudine veneta che scompare, una che si consolida.
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