Piagnistei e vittimismi. Per la sinistra il Salone "è sempre roba mia"

Il Pd ha deciso per anni direttori e consulenti. Ora che non ci riesce, denuncia "interferenze"

Piagnistei e vittimismi. Per la sinistra il Salone "è sempre roba mia"

Sebbene i festival siano il regno delle tartine, la Cultura non è un pranzo di gala. È una guerra. E gli intellettuali, notoriamente, sono peggio dei barbari e dei mercenari. Ecco perché ciò che sta accadendo a Torino, per quanto umiliante per la città, è molto interessante dal punto di vista non tanto della abusata egemonia, ma dell'antropologia culturale.

Cosa succede? Proviamo a spiegarlo.

Nonostante mesi di valutazioni e proposte, tutte peraltro squisitamente politiche (i candidati che hanno partecipato alla manifestazione di interesse, una cinquantina, non sono mai stati incontrati dai selezionatori né si è chiesto loro un progetto o un'idea) il Comitato direttivo del Salone del Libro non riesce scegliere il direttore per il triennio 2024-2026, ossia colui che sostituirà Nicola Lagioia, per il quale l'edizione del prossimo maggio sarà l'ultima avventura (salvo ripensamenti, chissà). Ora. Il comitato direttivo è composto da sette persone, sei delle quali (unica eccezione è l'assessore alla Cultura della Regione Piemonte) di indirizzo democratico, nel senso di Partito. I «privati», coloro che detengono il marchio del Salone e pesano di più nelle decisioni, hanno sempre spinto Paolo Giordano, scrittore dall'immacolato pedigree progressista, spocchiosetto quanto basta, che non ha mai organizzato neppure una presentazione in libreria ma è il perfetto «azionista» alla torinese. Invece la Regione, amministrata dal centrodestra e che mette parte dei soldi, non è mai entrata in partita. Il suo motto - tragico - è: «Lasciamo che decidano loro».

Alla fine «loro», non hanno deciso niente. Ieri il sindaco di Torino ha ufficialmente dichiarato chiusa la procedura di selezione del direttore con un nulla di fatto: si riparte da zero. Paolo Giordano, il maggior candidato alla direzione, ha dichiarato di tirarsene fuori perché avrebbe ricevuto pressioni dalla politica, e non può accettare limitazioni alla sua autonomia (eccoli gli antifascisti da salotto, i partigiani da Salone che si credono Gobetti e sono solo eroi del vittimismo, dell'ideologia e del protagonismo...). L'ingerenza sarebbe la richiesta di inserire nel gruppo dei suoi consulenti (attualmente 17 persone, una sorta di congresso ombra del Pd nominato all'epoca da Lagioia), tre persone di «area di destra». Ed è subito scoppiato il piagnisteo.

Giordano, come un ragazzino capriccioso, ha puntato i piedi e se n'è andato a casa, portandosi via il pallone, visto che gli piacciono le metafore calcistiche. La sinistra torinese, e anche nazionale, ha pavlovianamente gridato allo scandalo (in prima fila c'è Peppe Provenzano, vicesegretario del Pd: «Davvero il Governo vuole occupare il Salone del Libro?»), scoprendo che quella lottizzazione di cui la sinistra abusa da trent'anni può essere double face; del resto Lagioia, che ora si fa bello dichiarando che la politica non deve metterci becco, è lì perché lo decise Massimo Bray, all'epoca presidente del Salone, con l'assenso di Dario Franceschini, ministro alla Cultura (parentesi: ed è così si deve fare, secondo l'infallibile «metodo Chiamparino»: pago, comando, decido).

In più si sono messi anche a litigare Silvio Viale, a capo dell'associazione che è proprietaria del marchio del Salone, e Giulio Biino, Presidente del Circolo dei Lettori che materialmente organizza l'evento: il secondo ha fatto notare che in fondo non sarebbe stato un attentato alla Costituzione se Paolo Giordano avesse accettato un minimo di pluralismo dentro il gruppo dei suoi consiglieri; il primo ha invece agitato le solite parole d'ordine: «autonomia» e «indipendenza» (ma indipendenti da chi? Non dai soldi delle fondazioni bancarie e da quelli pubblici).

Eppure in tutto ciò - quando fino a ieri nessuno a Torino alzava un sopracciglio se le nomine, tutte le nomine, le faceva il Pd - sembra che la colpa sia del governo Meloni. Pura fiction.

Comunque, per fare chiarezza. Uno: il Ministero della Cultura non è nella governance del Salone del libro e non ha alcun potere sulla manifestazione. Gennaro Sangiuliano lo sa e non è mai intervenuto. Due: la richiesta di collaborazione con il Ministero è arrivata direttamente dagli organizzatori del Salone: è stato il responsabile delle Relazioni istituzionali del Lingotto a chiamare il Ministero per organizzare un incontro a Roma. Tre: in tale occasione il ministro ha proposto alcuni nomi da inserire nel comitato editoriale per garantire un pluralismo che nei fatti non c'è stato in passato (e chi scrive si ricorda bene le edizioni militarizzate e a senso unico per temi, programmi, inviti, polemiche...). Quattro: Paolo Giordano, o chi per lui, dovrebbe spiegare perché non può collaborare con intellettuali del peso di Pietrangelo Buttafuoco, Alessandro Campi e Giordano Bruno Guerri. Cinque: troviamo ridicolo che la sinistra, ormai residuale a Torino come in Italia, ora che non può più dare le carte, ossia nomine e poltrone, si alzi in piedi a dire che la partita è truccata. Sei, una domanda: se lo spoil system ha funzionato così bene negli anni scorsi - quando per un incarico non si sceglieva il migliore in assoluto ma il migliore della propria parte politica - perché ora non va più bene? Per citare un esempio extra Salone: a Giovanna Melandri, all'epoca, non fu affidata la Presidenza del Maxxi, che ora è di Alessandro Giuli, perché era la persona migliore in assoluto in Italia per quel posto; ma perché era la migliore che Veltroni aveva a disposizione in quel momento. Eppure nessuno parlò di ingerenze, censure, spartizioni...

Sette: cosa succederà ora? Risposta: si andrà per nomina diretta. E delle due l'una: o si ripescherà proprio Paolo Giordano, con le stimmate dell'eroe; oppure si punterà su un nome davvero condiviso.

Speriamo la seconda.

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