
Giovedì scorso 13 marzo, parlando dei conti delle Generali, il ceo della compagnia Philippe Donnet ha detto due cose. La prima: «La nostra esposizione in Btp a fine 2024 ammonta a 35,6 miliardi di euro. Ma stiamo valutando di aumentare i nostri acquisti». La seconda: «Ritengo la procedura di Golden Power un’opportunità di fare chiarezza per rispondere a tutte le perplessità e le domande che ci sono in giro». Il riferimento è all’accordo con la francese Natixis per trasferire a una newco paritetica circa 650 miliardi di attivi degli assicurati. Se si uniscono i puntini si può leggere un messaggio al governo: se il Golden Power non porrà problemi all’operazione Natixis-Generali (il governo teme un trasferimento di asset italiani sotto gestione francese), Generali si propone per acquistare nuovo debito pubblico. Nello stesso tempo c’è un altro Ceo, Andrea Orcel di Unicredit, che ha comprato titoli della stessa Generali, qualcuno dice fino al 10% del capitale. Anche qui, unendo i puntini, prende forma un messaggio simile: se il Golden Power non crea problemi sull’offerta che Unicredit ha lanciato in Italia su Bpm, la quota nella compagina – decisiva negli equilibri delle Generali – terrà in dovuta considerazione l’interesse del governo quando ci sarà da votare nell’assemblea che il 24 aprile prossimo nominerà il prossimo cda. A cercare un dialogo con l’esecutivo si aggiungono anche il Ceo del Banco Bpm, Giuseppe Castagna e il presidente di Credit Agricole Italia, Giampiero Maioli: tutti hanno chiesto udienza e sono stati ricevuti di recente a Palazzo Chigi e al Mef.
È l’effetto del Golden Power, che l’esecutivo di centro destra interpreta come uno strumento strategico nel valutare le operazioni finanziarie, mettendo per la prima volta al centro l’interesse nazionale. Può piacere o no, ma di certo si tratta di un’arma che abbiamo visto usare spesso in tanti altri sistemi di capitalismo liberale. Sovente gli stessi (come la Germania e soprattutto la Francia) che da un lato si appellano al mercato e dall’altro non garantiscono la reciprocità. La linea l’ha spiegata bene Giancarlo Giorgetti alla Camera: «Nel settore finanziario – ha detto il ministro dell’Economia - la normativa impone l’obbligo di notifica, indipendentemente dalla nazionalità italiana o straniera del soggetto acquirente, nel caso in cui l’operazione di acquisizione abbia ad oggetto attivi di rilevanza strategica». Di conseguenza, ha sottolineato, «non è una mia discrezione, ma era mio dovere ricordare che esiste il Golden Power».
L’idea originale – nata 30 anni fa - era quella di lasciare al governo poteri speciali nelle società privatizzate. Si chiamava Golden Share. Diventa Golden Power nel 2012, con il governo Monti, per la necessità, di estendere tali poteri anche a tutte le società, pubbliche o private, che svolgano attività di interesse strategico ai fini della difesa della sicurezza nazionale. Nel tempo lo strumento si è evoluto. Ma solo con il governo Draghi e soprattutto Meloni si sta consolidando nella sua attuale interpretazione. Che poi, di fatto, rende più trasparente quella moral suasion che la politica ha sempre esercitato sul mercato, stando però dietro le quinte.
Per un liberale in purezza il Golden Power non è il massimo.
Ma dal momento che il mondo è piccolo «però anche molto cattivo» (come sentenzia Wild/Kinsky in “Qualche dollaro in più”), un Paese come l’Italia non può permettersi che l’esposizione ai meccanismi di mercato non trovi anche un contrappeso strategico nazionale. Soprattutto con i tempi che corrono. Certo, questo non dovrà mai essere di natura ideologica, bensì esclusivamente di politica industriale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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