La Bce ha dato inizio alla danza del calo dei tassi di sconto di Eurolandia. Un percorso analogo, in ragione degli ultimi economics non brillanti, potrebbe attuarlo la Fed. Se così fosse, si potrebbe affermare che uno dei tre maggiori responsabili del rallentamento dell’economia occidentale viene meno nella sua morsa stringente. Il secondo responsabile di maggior rilevanza è l’inflazione, anch’essa in progressiva ritirata in Europa; un po’ meno negli Usa soprattutto se le autorità monetarie ritengono di dover posizionare l’inflazione in una forbice tra 1,8 e 2,2 percento.
Il terzo indiziato per rilevanza nel rallentamento riguarda l’economia cinese e la sua indiscutibile importanza nel import- export mondiali. Le varie fasi che hanno determinato una crescita economica lontana di 10 punti dai tempi d’oro, ma anche di almeno 3 da quelli in cui il mondo si era abituato, hanno rappresentato, soprattutto per l’Europa e in particolar modo per la Germania locomotiva fondamentale a cui è fortemente agganciato il nostro export manifatturiero - un tappo alla crescita.
Adesso, in attesa di un programma delle tempistiche e delle percentuali dei cali dei tassi di sconto da parte, almeno per ora, dalla sola Bce, è necessario che le tre economie europee, la nostra e quelle tedesche e francesi, definiscano un core su cui ciascuna punta nel prossimo biennio per risalire la china fino a posizionare la crescita del proprio Pil ai livelli dell’inflazione. Ovvero non distante dal +2% anno o meglio ancora ben sopra di almeno mezzo punto. Sicuramente per la Germania a primeggiare sarà l’automotive, visto che i più blasonati marchi dei top di gamma (Mercedes, Bmw, Volkswagen-Audi, a cui si aggiunge Porsche), senza dimenticare l’importanza nella chimica-farmaceutica (con Bayer e Basf), nell’elettronica (con Siemens e nell’information tecnolgy europea (con Sap).
Altrettanto facile identificare nel lusso, moda e accessori, il riferimento dei transalpini, visto che le tre di vertice mondiale quotate a Parigi - Lvmh, Christian Dior ed Hermès - capitalizzano quanto l’intero listino di Piazza Affari e rappresentano per l’Italia i massimi riferimenti della prestigiosa filiera che li realizza sul nostro suolo. Al lusso si abbina l’automotive - con i giganti, Stellantis (nel cui capitale è presente come primo azionista la scuderia di John Elkann) e Renault (il cui azionariato è condiviso alla pari con i giapponesi di Nissan) - oltre a ragguardevoli presenze nel chimico farmaceutico (con Sanofy).
Per l’Italia, il quadro è molto più nebuloso e paradossalmente si può affermare che i capitoli su cui fare più affidamento sono quelli del bancario-assicurativo, nei quali soprattutto, per il primo, le maggiori banche a capitale italiano sono ai vertici europei del credito, grazie alle elevate patrimonializzazioni che si evidenziano attraverso il Core Tier1, il coefficiente della affidabilità e stabilità, indicatore chiave di solidità e resilienza alle crisi, attestato intorno al 14-14,5%, tra i migliori d’Europa.
La carenza di grandi imprese, praticamente di ogni comparto, pone seri problemi alla crescita, solo nel farmaceutico, nell’agroalimentare e nella moda, abbiamo posizioni primarie in Europa. Per oltre il 95% il nostro tessuto imprenditoriale è costituito da pmi, su circa milione di partite Iva sotto forma di capitale oltre il 90% fattura meno di 5 milioni. E sono solo 40mila quelle tra i 5 e i 30 milioni, meno di 10mila quelle tra 30 e 100 milioni, 2mila quelle con oltre i 100 milioni.
A fare la differenza in positivo e a sostenere la nostra economia c’è la qualità della filiera manifatturiera e agricola, insieme a un terziario dilagante, perno dell’attrattività italiana. Le aziende dei quali purtroppo dispongono di un proprio capitale di rischio residuale e di un elevato indebitamento bancario.
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