Il Nobel per l'Economia alle virtù della democrazia

Acemoglu, Johnson e Robinson premiati per le teorie sul ruolo delle istituzioni nel ridurre le diseguaglianze

Il Nobel per l'Economia alle virtù della democrazia
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Come cambiano le cose in mezzo secolo. Nel 1974 il Nobel per l'Economia veniva assegnato a Friedrich August von Hayek, tra i capostipiti di quella scuola austriaca che mette al centro l'individuo come artefice delle proprie fortune e in un cono d'ombra tutto ciò che viene pianificato - con varie gradazioni, fino ad arrivare alla «presunzione fatale del socialismo» - dalle istituzioni. Cinquant'anni dopo, il premio è finito invece nelle mani di Daron Acemoglu, Simon Johnson (entrambi docenti del Massachusetts Institute of Technology) e di James Robinson (Università di Chicago) per gli studi su come le istituzioni si formano e influenzano la prosperità delle persone e della comunità nella quale sono inserite. «The Times They Are A-Changin», per dirla con un altro Nobel, Bob Dylan.

Rispetto all'esaltazione dell'individuo e al rifiuto liberista di ogni approccio dirigista, Stoccolma volge quindi ora lo sguardo verso chi considera un motore di crescita proprio quella giustizia distributiva detestata dalla scuola austriaca. «Ridurre le ampie differenze di reddito tra i Paesi è una delle sfide più grandi del nostro tempo. I vincitori hanno dimostrato l'importanza delle istituzioni sociali per raggiungere questo obiettivo», ha commentato Jakob Svensson, presidente del comitato per il premio. Si tratta di un'affermazione coraggiosa, in tempi in cui anche le socialdemocrazie basate sul «welfare state» si stanno convertendo a un «warfare state» che sottrae risorse; in cui la forbice tra molto ricchi e molto poveri si è andata allargando negli ultimi decenni nei Paesi più sviluppati; e in presenza di una certa attitudine, tutta europea, a pigiare più sul pedale dell'austerità contabile piuttosto che sulla creazione di ricchezza collettiva, malgrado i «caveat» di Paul Krugman, un altro economista premiato dall'Accademia di Stoccolma. E, senza scomodare Rousseau («È un pensiero da schiavi pensare che coloro che dominano il mondo sul piano economico e politico se lo meritano»), l'affermazione appare ancor più coraggiosa in un'epoca in cui la disaffezione nei confronti delle istituzioni ha la sua cartina al tornasole nel dilagante astensionismo in occasione delle elezioni. Una deriva di cui è ben consapevole proprio uno dei premiati, il professor Acemoglu: «Se guardiamo ai dati, questi mostrano che le istituzioni ovunque, anche negli Stati Uniti, in alcuni Paesi europei e in molte aree del mondo, si stanno indebolendo. E questo è preoccupante».

Peraltro, già Angus Deaton (Nobel 2015) ammoniva che il cammino del progresso genera disuguaglianza e un esercito di miserabili. Senza che le istituzioni possano porvi rimedio. Certo la spiegazione, almeno in alcune delle aree sottosviluppate del mondo, sta in una carenza (o assenza) di democrazia, o di regole. In altre, ben più evolute, la crescente pervasività della finanza nel tessuto economico, senza un'adeguata redistribuzione della ricchezza, ha finito per allargare lo iato tra chi sta bene e chi soffre.

Nel libro «Prosperità, potere e povertà: perché alcuni Paesi riescono meglio di altri», Acemoglu e Robinson insistono infatti sulla necessità di quadri politici ed economici inclusivi e sul ruolo delle istituzioni economiche nel garantire la crescita a lungo termine. Più in generale, l'economista di origine turca sostiene che i regimi autoritari «avranno più difficoltà a ottenere risultati sostenibili a lungo andare in termini di innovazione». Anche perché una dittatura tende a subire l'isolamento a livello internazionale, soggetta com'è spesso a sanzioni che ne limitano lo sviluppo. In ogni caso, il lavoro di Acemoglu, Johnson e Robinson ha la sua parte più interessante nel paradosso creato dal colonialismo europeo, dove Paesi un tempo floridi sotto l'occupazione versano ora in condizioni economiche peggiori, mentre altri sono riusciti ad affrancarsi da una condizione di indigenza.

Il motivo è legato al tipo di istituzioni sociali introdotte dai colonizzatori: quelle di natura inclusiva (tipo America del Nord e Oceania), basate sul diritto alla proprietà, sullo stato di diritto e su opportunità economiche più eque, portano a un futuro di maggiori benefici; quelle di tipo «estrattivo«, cioè basate sullo sfruttamento e l'arricchimento rapido, a

lungo andare annullano la prosperità e non portano alcun miglioramento fino a quando il potere non sarà stato trasferito e si sarà instaurata la democrazia. Una lezione che anche chi governa oggi dovrebbe mandare a memoria.

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