"Assad potrebbe cadere": così Russia e Iran corrono in soccorso del regime siriano

La caduta di Hama "come la presa della Bastiglia". E intanto Israele monitora gli eventi in Siria e auspica l'indebolimento di entrambe le parti in lotta

"Assad potrebbe cadere": così Russia e Iran corrono in soccorso del regime siriano
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Quando succede qualcosa ad Hama significa che sta succedendo qualcosa in Siria”. A dirlo in un’intervista al Corriere della Sera è lo scrittore Shady Hamadi, nato in Italia da madre italiana e padre siriano, quest’ultimo più volte arrestato e torturato nel suo Paese perché membro del Movimento Nazionalista Arabo. Hamadi commenta la presa della quarta città siriana da parte dei ribelli islamisti definendola una “bastiglia”: “se prendi Hama cambia tutto”, sostiene lo scrittore.

E in effetti la caduta della città che nel 1982 fu teatro di un assedio lanciato dall’esercito siriano per soffocare la rivolta di un’ala radicale della Fratellanza musulmana – 40mila vittime secondo le stime – sembra segnare davvero un punto di svolta nell’improvvisa recrudescenza della guerra civile in Siria.

Per il Wall Street Journal catturare Hama significa lasciare un’unica importante città, Homs, nelle mani del governo di Bashar al-Assad sulla strada che dal nord controllato dai ribelli conduce alla capitale Damasco. “Se continuano di questo passo”, ragiona Dareen Khalifa dell’International Crisis Group, “dobbiamo prendere seriamente in considerazione il fatto che il regime possa crollare per davvero. A questo punto è una possibilità reale”.

La presa di Hama arriva a meno di una settimana dalla conquista di Aleppo da parte del gruppo islamista sunnita ed ex qaedista Hayat Tahrir al-Sham (Hts), il quale con la sua avanzata lampo ha rubato la scena all’alleanza di milizie guidate dai curdi delle Forze democratiche siriane (Sdf) sostenute dagli americani e non in buoni rapporti con gli stessi ribelli filoturchi guidati da al-Jolani.

Nelle ultime ore, di fronte alla prospettiva del collasso del regime di Assad, Russia e Iran sono scese in campo per dare man forte al loro alleato nella regione. Mosca ha infatti lanciato una serie di raid nella roccaforte ribelle di Idlib mentre Teheran ha inviato miliziani sciiti dall’Iraq e di Hezbollah dal Libano.

Diversi analisti hanno spiegato la debacle delle forze regolari siriane con il momento di relativa fragilità che i loro sostenitori internazionali stanno attraversando: la Russia alle prese con la guerra in Ucraina e l’Iran sempre più coinvolto in uno scontro diretto con Israele. In particolare è proprio l'indebolimento dell’"asse della resistenza" foraggiato da Teheran uno dei game changer che potrebbero aver influito maggiormente sul tracollo dell’esercito di Assad.

L’Iran è stata lì per noi e protegge gli oppressi. Siamo alleati e lo saremo sempre”, dichiara al Washington Post un membro di Hezbollah, la cui leadership è stata di recente decapitata da Tel Aviv, smentendo chi sostiene che il gruppo libanese sia troppo debole per aiutare con efficacia il regime siriano. Sebbene al momento abbia schierato solo i suoi proxy in Medio Oriente e i consiglieri militari delle Guardie della Rivoluzione, il regime degli ayatollah non ha escluso di inviare elementi del proprio esercito “se Damasco lo chiederà”.

Anche lo Stato ebraico è preoccupato per il successo dei ribelli islamisti. “Monitoriamo costantemente quanto accade in Siria”, ha affermato nei giorni scorsi il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Gli fanno eco i generali dell’Idf, i quali dichiarano di prepararsi ad ogni scenario. Da anni Israele ha ingaggiato in territorio siriano una “guerra tra le guerre” al fine di interrompere il traffico di armi verso gli Hezbollah ed ha sempre preferito quello che gli esperti definisconoil diavolo che conosce” alla vittoria dei gruppi islamisti in Siria.

Per noi è del tutto chiaro che da una parte ci sono i jihadisti salafiti e dall'altra parte l'Iran ed Hezbollah.

Vogliamo che si indeboliscano a vicenda", afferma un funzionario del governo di Tel Aviv al Times of Israel. È tutta qui la strategia di Netanyahu che dopo Gaza, Libano e Iran deve tenere conto della riapertura di un altro imprevedibile fronte di instabilità in Medio Oriente.

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