Quando il Medio Oriente prova a voltare pagina la questione palestinese torna a ricordare che il doloroso passato è ancora un tragico presente. Il 6 ottobre del 1973 cominciava infatti l’attacco a sorpresa degli eserciti di Siria ed Egitto contro Israele in occasione della festa ebraica dello Yom Kippur. Oggi 7 ottobre, a mezzo secolo da quella data e all’alba di un giorno di shabbat, un’altra aggressione sconvolge Israele.
La minaccia per Tel Aviv questa volta arriva dal cielo e prende la forma dei razzi lanciati da Hamas, l’organizzazione che ha preso il controllo della Striscia di Gaza poco dopo il ritiro unilaterale di soldati e coloni proclamato nel 2005 dall’allora premier israeliano Ariel Sharon. Da quando il movimento islamista amministra Gaza, un territorio di circa 365 chilometri quadrati abitato da più di due milioni di persone, si sono registrate quattro guerre oltre ad una lunga serie di combattimenti contro le forze militari di Tsahal.
La recrudescenza delle violenze nella regione arriva in un momento in cui l’Arabia Saudita è vicina a ufficializzare le relazioni con Israele attraverso la mediazione degli americani. Un riavvicinamento di portata storica che, se confermato, segue quello già sottoscritto da Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan nella cornice degli Accordi di Abramo. Per decenni qualsiasi ipotesi di dialogo con Israele era vista dai Paesi arabi come una prospettiva impossibile a causa dell’irrisolto status della questione palestinese.
I nuovi equilibri determinati dalle primavere arabe e, soprattutto, l’emergere della figura del principe ereditario saudita Mohammad bin Salman hanno apportato una revisione di tale posizione. Se ufficialmente la proclamazione di uno Stato di Palestina viene ancora definito essenziale dalle nazioni arabe per raggiungere una pace duratura tra i vicini della regione, esso sembra non essere più davvero considerato una condizione essenziale.
Il disinteresse delle maggiori potenze dell’area nei confronti dei “fratelli palestinesi” unitamente alle politiche del governo israeliano di Benjamin Netanyahu a favore della costruzione di nuove colonie hanno contribuito allo scivolamento dei territori in una condizione di povertà insostenibile. Una situazione che l’Iran, avversario di Tel Aviv e di Riad, ha sfruttato finanziando gruppi come Hamas ed Hezbollah. Oltre alla popolazione a farne le spese è stata l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), guidata dall’88enne Abu Mazen, che controlla la Cisgiordania ma vede messa in discussione la sua autorità anche nel suo feudo.
Gli attacchi di questa mattina contro Israele arrivano al culmine di mesi di violenze senza precedenti dalla fine della Seconda Intifada. Alle azioni di Hamas e della Jihad Islamica, suo rivale a Gaza, segue puntuale la risposta dello Stato israeliano in un ciclo di azione e controreazione di cui non si intravede la fine. “Coloro i quali si affrettano a normalizzare le relazioni con Israele sappiano che stanno riconoscendo che la Palestina non è nostra”, queste le parole usate ieri dal comandante della Jihad Islamica Ziad al-Nakhala in occasione delle celebrazioni del 36esimo anniversario dalla fondazione del gruppo terroristico. Un monito che a Riad e a Washington non sarà passato inosservato.
Venti anni fa il segretario di Stato americano Condoleezza Rice parlava di un Medio Oriente in preda alle doglie del parto di una nuova
era. Gli eventi delle ultime ore ricordano al mondo che la mancata soluzione della questione palestinese è ancora un ostacolo imprescindibile per qualsiasi duraturo e pacifico rinnovamento nella regione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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