
Forse non tutti lo hanno capito ma la decisione di Donald Trump di esentare i grandi gruppi hi tech americani dai dazi è la dimostrazione che la strategia della Casa Bianca ha dei limiti strutturali. Il presidente Usa ha deciso l'ennesima marcia indietro perché, per fare un esempio, l'80% di un i-phone della Apple è prodotto in Cina per cui il prodotto al consumatore americano rischierebbe di costare più del doppio del prezzo di ora. Un meccanismo perverso quello dei dazi in questo settore, quindi, che da una parte avrebbe messo in ginocchio i giganti della Silicon Valley - cioè il comparto più prestigioso e strategico dell'economia Usa - dall'altra gli avrebbe alienato la simpatia di una buona parte del suo elettorato visto che lo smart-phone è diventato un bene di largo consumo. Per cui The Donald è corso ai ripari sia per le pressioni di potenti compagnie come la Apple e Microsoft, per fare due nomi, sia per non perdere consensi.
Ora, però, il presidente deve vedersela con gli altri settori commerciali che non hanno ricevuto la sua grazia divina, che sono pesantemente penalizzati dai dazi. Ad esempio nel settore dell'automotive Ford e General Motors sono estremamente esposte, come pure la Tesla che produce negli Stati Uniti ma importa molti componenti dall'estero. E ancora sotto schiaffo per i d+i ci sono la Nike che ha un'alta produzione in Vietnam e in Indonesia, Amazon che importa prodotti dall'estero, una società leader nel settore dei semiconduttori come Nvidia o la Walmart colosso dei rivenditori al dettaglio. D'ora in avanti l'Arancione - per usare il nomignolo che gli ha affibbiato Giuliano Ferrara - dovrà spiegare a questi interlocutori perché ciò che è possibile per i giganti della Silicon Valley a loro non è concesso.
Il problema è che lo strumento dei dazi portati ai livelli introdotti o minacciati da Trump è primordiale in economia. Per fare un paragone bisogna tornare alla Cina prima del suo ingresso nel Wto, quando c'erano dazi del 100% sulle auto e tra il 35% e oltre per gli altri prodotti. Per cui è naturale porsi una domanda: può la patria del liberismo economico «cinesizzarsi», addirittura usare strumenti che appartenevano al Dragone di quarant'anni fa? Con tutte le ragioni che può avere Trump - perché i problemi che ha sollevato esistono - è un «non sense», è una strategia contro natura rispetto alla cultura americana. Tantopiù che per non avere problemi come quelli che lo hanno costretto alla marcia indietro sull' Hi tech i dazi possono essere utilizzati come bombe nucleari in economia solo in presenza di un determinato contesto politico: o in un sistema comunista, o, comunque, in un regime. Per essere chiari: i grandi gruppi cinesi che vivono in simbiosi con il partito non sono nelle condizioni di protestare o fare pressioni. I grandi capi delle multinazionali cinesi che hanno osato - è storia - o sono stati pensionati per un periodo, o sono spariti del tutto. Né tantomeno in un sistema come quello cinese Xi deve preoccuparsi più di tanto del consenso. È il regime che lo garantisce.
Ecco perché le questioni di cui parla Trump non si risolvono imboccando la strada dei dazi alle stelle. Il mondo disegnato proprio dai grandi gruppi industriali americani, dai signori di Wall Street è troppo interdipendente. La globalizzazione è nata Seattle non all'ombra della Grande Muraglia che ne ha solo beneficiato. E le distorsioni- che sicuramente non mancano - non le risolvi con un curva ad U perché rischi di finire fuori strada e i primi a pagare un a recessione sono proprio quei ceti che Trump dice di voler difendere. Una società liberista come gli Usa non può risolvere i propri guai cinesizzandosi, o, addirittura, rinnegandosi.
Meglio restare nel solco della tradizione del liberismo Usa dalla Reaganomics (la trickle-down economics, che parte dai ricchi e scende a goccia aiutando tutti) o del «liberismo compassionevole» di Bush. Esempi magari datati ma sicuramente meno del vecchio modello cinese.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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