La resistenza senza velo. Il destino di Jasmin scomparsa in un racconto

La storia di una scrittrice iraniana che usa la letteratura per denunciare a regime. La sua pagina da tre anni è inattiva e non si sa nulla di lei

La resistenza senza velo. Il destino di Jasmin scomparsa in un racconto

Una decina d'anni fa ricevetti un messaggio su Facebook. Lo firmava una ragazza di nome Jasmin che sarebbe ben presto diventata mia amica. Aveva la mia età e viveva nell'Iran centrale, esattamente a Isfahan. Diceva di amare il mio Paese e di aver imparato l'italiano da sola, leggendo autori novecenteschi e guardando la televisione. Diceva inoltre che era una scrittrice e che anche per questo voleva conoscermi. Scriveva racconti per una rivista, aggiunse, e aveva aperto una pagina social dove pubblicava le sue poesie, composte totalmente in italiano.

Subito mi precipitai a leggerle, commuovendomi. Jasmin Mirage, che si faceva chiamare Jasmin Ef, era infatti riuscita in un piccolo grande miracolo. Quella pagina, Alba persiana (https://www.facebook.com/profile.php?id=100063351060662), ancora oggi aperta ma inattiva dal 2021, era ed è ancora stupefacente, è uno scrigno di sole e sangue, una stimmata dove la letteratura diventa giornalismo, in cui la forma poetica delle invocazioni ha il volto nudo della denuncia: proprio questo mi colpì più di ogni altra cosa, e non tardai a comunicarlo a Jasmin, mentre chattavamo da un continente all'altro e nonostante i tremendi fuso orari. Mi tramortiva, quasi mi scandalizzava il coraggio di una giovane donna che sfidava il regime iraniano, pubblicando un post infuocato dopo l'altro, creando contenuti di parole e immagini attraverso cui raccontava disinvoltamente la sua terra e chiedeva aiuto, per sé stessa come per i suoi connazionali.

Una sera le domandai che sarebbe successo, nel caso quella pagina non fosse più andata a genio a qualcuno. Rispose che era preparata e che ad ogni modo era già passata da quel rischio. Chiesi quindi spiegazioni.

Seppi così che Jasmin era stata in carcere, era stata segregata e picchiata ed era andata incontro al sequestro di pc, telefoni e ogni altro mezzo di comunicazione. Poco tempo dopo riuscii anche visionare qualche foto: la ritraevano col viso tumefatto e varie parti del corpo chiazzate di lividi. La guardai senza fiato. La faccia sembrava una gigantesca rosa rossa che stava esplodendo. Il resto del fisico invece, una sorta di mappa sciancata di ematomi e ferite, si aggrappava alle sbarre della cella, il collo chinato in avanti e le falangi intrecciate alle liste di metallo, a cui letteralmente si attaccava con le ultime forze rimaste.

Ero stravolta. Non seppi che dire e mentre cercavo di riprendermi fu addirittura Jasmin a tranquillizzarmi, dichiarando che tutto quello era normale e che per lei non era che abitudine, quello era il suo quotidiano, quello era l'Iran: anche allora dominato dai metodi di Ebrahim Raisi, colui che all'epoca imperversava non nelle vesti di presidente bensì di procuratore generale, una specie di magistrato tagliagole col vizio di giustiziare gente dalla mattina alla sera, il cosiddetto Macellaio di Teheran (così veniva soprannominato), sanzionato dagli USA per la sua lunga serie di violazioni di diritti umani. Figura certo surreale per non dire romanzesca, che pareva venire dritta dritta dal Processo di Kafka, che assegnava colpe ed esecuzioni come se niente fosse.

Quando riflettevamo su questo stato di cose e io esprimevo le mie preoccupazioni, Jasmin spesso cambiava argomento; si rivolgeva ad altro, voleva concentrarsi sul positivo, sul bene. Un giorno mi confidò che nel tempo libero faceva la guida turistica e insegnava drammaturgia, dedicandosi a quello che lei aveva denominato Il Teatro della Speranza'. Sorrisi allora, e pensai che quello era l'unico modo per non morire, per non morire davvero: sperare. Sperare disperatamente. Sperare contro ogni speranza. In quell'attimo pensai anche a un uomo che con l'antica Persia, dunque con l'attuale Iran, aveva parecchio a che fare. Alessandro Magno. Pensai a un passo di Plutarco che conosco a memoria, che descrive il grande condottiero nel momento in cui parte per conquistare l'Asia e dona ai suoi amici quanto possiede: Plutarco cita una fattoria, un villaggio, rendite di borghi e di porti. «E quando già il complesso di quasi tutti i beni regali era stato esaurito e assegnato», continua lo storico greco, «Perdicca disse: O re, che cosa riservi per te?, ed egli rispose la speranza».

Anche Jasmin non si riservava altro in fondo. Ed anch'io al momento non mi riservo altro, sebbene istintivamente seguiti a parlare al passato, a percepire Jasmin come qualcosa diventato da un certo punto in poi fioco e lontano, sempre più lontano, fino a scomparire.

Dov'è finita Jasmin? Me lo sono domandata anche davanti al filmato delle attiviste iraniane diventate ormai virali, Mersedeh Shahinkar e Sima Moradbeigi, che hanno festeggiato su Instagram la morte di Raisi. Nel video le due giovani si mostrano felici, cantando e salutando allegre i propri follower. Mentre Jasmin?, mi sono chiesta automaticamente, e me lo chiedo di nuovo in questo articolo che vale come appello accorato rivolto a chiunque. Jasmin, che fino a non molto tempo fa era invitata a parlare su numerosi media italiani, dalle radio ai blog ai giornali, che io stessa avevo intervistato e a cui avevo proposto di curare l'edizione di una raccolta di suoi componimenti, Jasmin Ef che fine ha fatto?

La sua pagina Facebook tace. Nessuna dichiarazione, nessun segno di vita. Nessuna vita, sono quasi tentata di scrivere, ricordando con dolore le nostre ultime conversazioni, gli ultimi strazianti messaggi in cui lei mi parlava delle persecuzioni che continuava a subire, della girandola infernale di abusi, sequestri, vessazioni e quant'altro. Scorrendo con apprensione quei bollettini di guerra mi veniva in mente Marjane, la protagonista di Persepolis, splendido film d'animazione che racconta del periodo precedente la Rivoluzione Iraniana e della presa di potere dei fondamentalisti islamici. Qui Marjane viene descritta come una combattente. È una che non molla, che alessandrinamente spera, che riesce perfino a lasciare l'Iran e a rifugiarsi a Parigi. A questo punto mi chiedo se anche Jasmin ce l'abbia fatta, se anche lei abbia trovato la propria Parigi o se gli squadroni di Raisi non l'abbiano trovata prima, per l'ultima e definitiva volta. Quel che è certo, qualora non dovessi mai ricevere risposta a questa domanda, è che saranno le poesie di Jasmin Ef a parlare.

Una in particolare, un verso di poche arroventate parole: «Nella stagione del silenzio, pianta i semi dell'urlo»: né più né meno che un capolavoro, una minaccia di bellezza in mezzo a chilometri e chilometri di orrore, uno dei più potenti inni alla libertà che abbia mai letto.

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