"Meloni come Marco Polo: ecco perché la missione a Pechino era fondamentale"

Abbiamo chiesto a Oliviero Frattolillo, professore ordinario in Storia e Istituzioni dell'Asia presso Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi Roma Tre, di commentare i punti caldi dell'incontro tra Meloni e Xi

"Meloni come Marco Polo: ecco perché la missione a Pechino era fondamentale"

Tessere nuovi rapporti bilaterali, ricucire-forse-lo strappo del 2023, riscrivere le relazioni economiche Italia-Cina: questo è molto altro è stato l'incontro di ieri tra Giorgia Meloni e Xi Jinping. Per approfondire le mille sfaccettature della missione italiana alla corte di Xi abbiamo rivolto alcune domande a Oliviero Frattolillo, professore ordinario in Storia e Istituzioni dell'Asia presso Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi Roma Tre.

Professore, ieri Meloni ha detto al presidente cinese: "C'è una insicurezza crescente a livello internazionale e io penso che la Cina sia inevitabilmente un interlocutore molto importante per affrontare tutte queste dinamiche, facendolo partendo dai rispettivi punti di vista per ragionare insieme di come garantire stabilità, pace e un interscambio libero". Secondo Lei, quanto può funzionare la pragmatica “pace cinese”?

La visita della premier Giorgia Meloni in questi giorni nella Repubblica Popolare Cinese può rivestire un’importanza centrale per diverse ragioni. In particolare, questa potrebbe rappresentare un’occasione diplomatica cruciale per tarare o, più in generale, per distendere i rapporti tra i due Paesi in seguito alla decisione presa dal governo italiano di fuoriuscire dall’iniziativa OBOR (One Belt One Road) nel 2023, alla quale aveva aderito in pompa magna il governo di Giuseppe Conte con la firma del memorandum nel 2019. Abbandono che aveva destato forti perplessità negli ambienti politici di Pechino intenti a scoraggiare per le vie ufficiali il nuovo orientamento della classe dirigente italiana. La posizione irremovibile di Roma aveva finito inevitabilmente per creare un certo raffreddamento nelle relazioni diplomatiche tra i due paesi, resosi tangibile durante il summit del G20 tenutosi a Bali nel 2022, quando il leader cinese Xi Jinping aveva inizialmente evitato di avere contatti con Meloni, sebbene a questo sia poi seguito un inatteso faccia a faccia tra i due in quella medesima occasione.

In tale cornice, il riavvicinamento promosso da Roma verso Pechino con questa visita di Stato non può prescindere dagli squilibri in atto nel sistema internazionale, soprattutto in fatto di sicurezza, ma non solo. I riferimenti della premier hanno toccato, infatti, sia la sfera geopolitica che quella geoeconomica: il conflitto in Ucraina resta certamente al centro dell’attenzione – e delle tensioni – insieme all’ambiguità verso la comunità internazionale che fin dall’inizio ha contraddistinto la posizione di Pechino nei suoi rapporti con il Cremlino; altrettanto cruciali sono gli aspetti dell’interscambio commerciale tra la RPC e l’Italia (nella fattispecie) che stanno sperimentando da tempo un declino a sfavore del nostro Paese. Ciò detto, il notorio pragmatismo cinese in politica estera ha finora garantito enormi successi per il Paese, consentendogli di tenere fermamente separati certi principi ideologici da quegli interessi più immediati di natura economica e finanziaria. Questa ricetta, del resto, si è rivelata un elemento fondante del Beijing consensus che si sta contrapponendo con discreto successo alle condizionalità economiche dettate dalle politiche di assistenza promosse dal FMI e dalla BM in numerosi Paesi del Sud del mondo.

Quali aspetti positivi potrebbe avere per l’Italia? E Roma che ruolo potrebbe ricoprire?

La visita di Meloni nella RPC e gli incontri programmati, tra gli altri, con il Primo Ministro del Consiglio di Stato, Li Qiang, e con la guida del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, Zhao Leji, oltreché con Xi fanno pensare ad una lunga e accurata istruttoria che ha preceduto tale iniziativa e che ha chiaramente incontrato il favore delle autorità cinesi. Ciò lascerebbe supporre che esistano tutte le premesse affinché lo strappo creatosi prima d’ora tra le due parti possa essere ricucito senza ulteriori ripercussioni per il nostro Paese, specialmente sul piano degli scambi commerciali e della cooperazione nel settore industriale.

Il capo del governo italiano ha ricordato a Xi come l'Italia possa avere un ruolo importante anche per le relazioni tra la Cina e l'Unione europea, "anche in questo caso lavorando per rapporti commerciali che siano il più possibile equilibrati”. L’Italia può svolgere questo ruolo di ponte tra Pechino e l’Unione? Come?

L’ingresso dell’Italia nel progetto cinese comunemente conosciuto come “Nuova Via della Seta” ufficializzato cinque anni fa rispondeva a un contesto geopolitico internazionale che oggi è profondamente mutato. Non ritengo si possa liquidare la decisione dell’allora governo italiano con aggettivi come “frettoloso” o “mal ponderato”; si trattò di una scelta ‘coraggiosa’ – questo sì. Fatto sta che si trattò di una decisione impopolare e isolata all’interno della comunità occidentale, invisa dagli Stati Uniti così come dagli altri membri del G7. L’auspicio del governo Conte era indubbiamente quello che l’Italia potesse beneficiare degli effetti virtuosi di un simile progetto che alimentava enormi aspettative, poi deluse dall’evidenza dei fatti.

Ma le analisi predittive, per quanto possano sembrare attendibili, presentano sempre larghi margini di inaffidabilità legati a variabili esogene, com’è stata ad esempio la guerra in Ucraina. Sullo sfondo di tali antefatti, il ‘disgelo’ del dialogo diplomatico con Pechino, accompagnato da una rivitalizzazione dei rapporti commerciali tra l’Italia e la RPC, potrebbe fornire al governo italiano la possibilità di spendersi a Bruxelles come interlocutore privilegiato di Pechino – un’occasione che rappresenterebbe anche un’opportunità per Meloni di guadagnare un margine di consenso nell’attuale complessa congiuntura a livello europeo che l’ha vista esclusa dagli esiti delle recenti elezioni per la formazione della nuova compagine politica dell’Unione.

"Cina e Italia devono considerare e sviluppare le relazioni bilaterali da una prospettiva storica e strategica" ha chiesto Xi alla Meloni. Secondo Lei, in questo momento, cosa desidera maggiormente Pechino dall’Italia?

Aldilà della retorica politica tipica di queste occasioni ufficiali, credo che le parole di Xi vogliano riferirsi esattamente alla possibilità di ricucire lo strappo registrato nel dialogo tra i due Paesi nel corso dell’ultimo anno e di avviare un nuovo percorso di intesa che possa ovviare, in qualche misura, al dietrofront italiano riguardo alla OBOR. Peraltro, il rischio di un decoupling tra Roma e Pechino andava scongiurato senza ulteriori esitazioni.

A suo giudizio, Xi potrebbe chiedere all’Italia un impegno maggiore, e dunque un ruolo chiave, per comunicare con l’Europa? Cosa rischia l’Italia?

Credo di aver già risposto, almeno in parte, a questa domanda sebbene ritenga opportuno aggiungere che su alcune tematiche di rilevanza centrale per l’UE nei suoi rapporti con la RPC, il ruolo dell’Italia rischia di restare marginale se non si sciolgono i nodi della questione della violazione dei diritti umani (nella provincia turcofona e a maggioranza musulmana dello Xinjiang, in particolare) che segna il divide più profondo tra le due parti sul piano normativo. Allo stesso modo potrebbe dirsi per la questione del rispetto delle regole che disciplinano il commercio internazionale e alle quali Pechino è spesso contravvenuta fin dal suo ingresso nell’OMC.

Xi, durante l’incontro, ha dichiarato: “Entrambe le parti sostengono la tolleranza, la fiducia reciproca e il rispetto reciproco, e ciascuna sceglie il proprio percorso di sviluppo”. Cosa ci sta dicendo, in realtà?

L’allusione di Xi appare chiara ed è frutto di uno dei due timori che da sempre hanno ossessionato la RPC: la frammentazione interna e la minaccia straniera. In questo caso, il riferimento sembra andare direttamente a quest’ultimo, dal quale Pechino suole difendersi in ogni occasione diplomatica, reiterando il vecchio principio della non ingerenza negli affari interni del Paese. L’ordine internazionale a cui essa guarda interpreta la sovranità dello Stato come principio inviolabile anche quando sono in gioco interessi nazionali la cui salvaguardia potrebbe implicare atti di interventismo militare, com’è stato nel caso del Tibet, poi rischiato a Hong Kong e che in futuro interesserà probabilmente Taiwan. Una sorta di monito che garantisca alla dirigenza del Partito di agire indisturbata, assicurando al tempo stesso la non intromissione cinese in eventuali questioni di interesse nazionale che possano riguardare i Paesi occidentali.

Sembra esserci un cambio di passo da parte di Xi verso il governo Meloni. Si tratta ancora di solo business, o qualcosa si muove anche sul piano della cooperazione politica dopo lo strappo della BRI?

Come ho già avuto modo di osservare, questa visita di Meloni nella RPC si articola in due canali paralleli e al tempo stesso intrecciati tra loro: tracciare il selciato per un nuovo dialogo diplomatico che includa il riconoscimento dell’ambizione egemonica globale nutrita sul piano diplomatico dall’attuale quinta generazione di leader politici cinesi – nonché sui suoi interessi territoriali in Asia orientale – e favorire con l’Italia un percorso di cooperazione commerciale alternativo alla OBOR che si baserà, di fatto, sul piano triennale proposto in questa occasione dal governo italiano. Questo disegno sarebbe in grado di soddisfare ampiamente i vari attori che dominano i vertici del cosiddetto “parallelogramma delle forze” che rappresenta la struttura di base dell’esercizio del potere politico nella RPC: il PCC, la burocrazia, la business community e le forze armate. Un microcosmo complesso che è il solo a poter garantire l’equilibrio tra le varie forze e i diversi interessi in gioco

L’Italia ha una posizione precisa su Taiwan. Che impatto ha avuto sul meeting secondo Lei?

Potrei sbagliarmi, ma non mi risulta che la questione di Taiwan abbia avuto un peso specifico nel colloquio tra Meloni e Xi, così come non credo che avrebbe dovuto occupare uno spazio all’interno del dossier concordato tra le due parti. La questione è talmente spinosa che avrebbe offuscato e forse compromesso ogni tipo di intesa ipotizzabile. Tuttavia, le parole di Xi che toccano il punto della non ingerenza negli affari interni sono una chiara allusione a questo tema.

Se a novembre dovesse vincere Trump negli Usa, quanto sono a rischio le intese Meloni-Xi di queste ore?

Difficile a dirsi. In tale eventualità, occorrerebbe essere in grado di predire fino a che punto il governo Meloni riterrà opportuno condividere anche le istanze più controverse dell’ideologia di Trump e quindi della sua aperta ostilità verso Pechino, unitamente alle spinte isolazioniste che è facile prevedere per gli Stati Uniti in politica estera. Sembra evidente, tuttavia, che se l’Italia vorrà fare sul serio per offrirsi come interlocutore tra la RPC e l’UE non potrà allinearsi in toto con una Casa Bianca a guida trumpiana. Oltretutto, gli interessi commerciali in gioco tra Roma e Pechino non sono gli stessi che pesano sull’asse transpacifico e per l’Italia è adesso prioritario incentivare gli investimenti cinesi nel Paese (obiettivo dichiarato, peraltro, della missione diplomatica in corso).

Un bilancio di questo incontro: business as usual o qualcosa è cambiato?

Come può emergere da quanto osservato fin qui, l’incontro tra Meloni e Xi ha la duplice ambizione di voler coniugare gli interessi economici e commerciali con quelli di natura politica. Vero è che la spinta principale nell’organizzazione di questa visita sia stata l’esigenza di rimediare ai danni economici provocati per l’Italia dalla reazione di Pechino alla sua fuoriuscita dalla OBOR, soprattutto con il calo degli investimenti cinesi in Italia e la forte asimmetria nell’interscambio tra le due parti. Lo sviluppo a beneficio congiunto dell’industria delle auto elettriche e l’incremento della cooperazione nel campo delle rinnovabili completano tale cornice. È purtuttavia inopinabile che la posizione occupata dalla RPC nel contesto geopolitico asiatico e la sua proiezione a livello globale, sempre più pervasiva, non può esimerla dal burden-sharing delle responsabilità internazionali.

La presunta (e mancata) capacità di mediazione che Xi potrebbe esercitare nei confronti di Vladimir Putin per una risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina è fin dall’inizio della guerra oggetto di critica da parte della comunità occidentale. Il richiamo di Meloni alla pace, alla stabilità e all’interscambio globale secondo regole eque hanno costellato la serie di incontri tenuti in questi giorni con i vari esponenti politici cinesi, sottolineando il ruolo cruciale che Pechino è in grado di svolgere.

Anche da questo punto di vista, la premier italiana ha voluto vestire i panni di Marco Polo, più volte evocato in quelle sedi, come simbolo di un ponte, di un dialogo necessario quanto sempre più a rischio nel nostro mondo ancora dilaniato dai conflitti bellici e dalla competizione per il primato economico.

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