
In preparazione degli incontri che il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, avrà in settimana con i vertici dell'amministrazione americana per negoziare sui recenti inasprimenti alle barriere tariffarie, è utile comprendere meglio la postura dell'amministrazione americana che, prima annuncia barriere tariffarie mai così elevate nella storia recente, poi le congela in alcuni casi (cf. Ue), in altri ancora le inasprisce (cf. Cina), ma non senza restringere il raggio di applicazione. In passato le tariffe erano sì utilizzate, ma per conseguire obiettivi specifici, mentre le misure attuali sembrano essere guidate da una visione apparentemente più ampia che tuttavia crea, dal punto di vista dell'amministrazione americana che le sta utilizzando, un corto circuito. Ma procediamo con ordine.
Gli esperti di commercio internazionale, tra cui lo storico dell'economia Doug Irwin, tendono a caratterizzare gli obiettivi associati alle tariffe con le cosiddette tre r. La prima sta per revenue o gettito fiscale come lo stesso Presidente Trump ha dichiarato in più di un'occasione. Negli Stati Uniti, il gettito proveniente da tali misure alimentava, appunto, il gettito fiscale in assenza di imposte sul reddito, almeno sino alla Guerra Civile. Successivamente, le tariffe furono utilizzate, sino alla Grande Depressione, come restrizioni utili a salvaguardare l'industrializzazione del nord del Paese. Infine, nella storia più recente, le tariffe sono state inquadrate nel contesto di politiche di reciprocità: gli Stati Uniti negoziavano in sede bilaterale, plurilaterale o multilaterale (l'abbassamento delle) tariffe per favorire i flussi commerciali nel contesto di una crescente integrazione dell'economia globale in cui erano, fino a pochi decenni fa, il leader incontrastato. Ora Trump le invoca al contrario per estrarre concessioni, ma la logica è analoga.
Nell'applicare, oggi, queste misure restrittive l'amministrazione americana commette, però, almeno due errori. Il primo è che, a fronte di un singolo strumento le tariffe, appunto l'amministrazione cerca di conseguire più obiettivi. Trump vuole utilizzare i proventi tariffari per consolidare il gettito fiscale, per rimpatriare le produzioni delocalizzate all'estero e salvaguardare quello che resta dell'industria americana e della sua occupazione. Infine, le usa proattivamente per negoziare con nazioni antagoniste e persino alleate agevolazioni di vario tipo minacciando tariffe punitive in assenza di loro cooperazione. Questo crea sovrapposizioni e tensione fra i molteplici obiettivi creando confusione circa le reali intenzioni dell'amministrazione. Per esempio, se l'obiettivo fosse di elevare il gettito fiscale ammesso che avesse senso nell'economia integrata di oggi allora non si dovrebbero utilizzare le tariffe come strumento di pressione negoziale. Esiste, poi, un'altra variabile completamente trascurata nello studio ovale della Casa Bianca e riguarda l'importanza pervasiva che i mercati finanziari hanno assunto sia negli Stati Uniti che nel resto dell'economia mondiale rispetto al periodo storico in cui gli Stati Uniti ne hanno fatto ampio uso. Nella società americana la previdenza è appaltata ai mercati finanziari da cui dipendono le aspettative sul reddito futuro dei lavoratori americani. Appaltato agli stessi mercati finanziari è il costo, sempre in crescita, dell'istruzione universitaria. In quest'ultimo caso, le famiglie aprono dei conti di risparmio a lungo termine i cui proventi sono destinati a pagare, un giorno, le pingui rette universitarie. Questo fa sì che l'opinione pubblica americana segua con particolare attenzione l'andamento dei mercati, al punto che gli indici di performance sono diventati un termometro in tempo continuo del gradimento di un'amministrazione.
La rilevanza dei mercati finanziari per comprendere l'evoluzione delle politiche tariffarie si interseca, infine, con il ruolo del dollaro come valuta di riserva del sistema monetario internazionale. Per regolare le transazioni internazionali, gli operatori esteri fanno provvista di dollari, acquistando titoli denominati in quella valuta. Tali acquisti equivalgono ad un accumulo netto di attività finanziarie, quindi crediti verso gli Stati Uniti che a loro volta si riflettono nel deficit delle partite correnti. Quando l'amministrazione dice che i paesi terzi devono utilizzare il dollaro come valuta internazionale, non può poi sanzionare il deficit che ne deriva per le partite correnti americane perché è un corto circuito.
Pertanto, la vendita di titoli di Stato americani, il conseguente, brusco innalzamento dei tassi di interesse e la (ulteriore) caduta degli indici di borsa che sono seguiti all'annuncio degli inasprimenti tariffari il 2 aprile scorso hanno convinto l'amministrazione a fare, almeno per il momento, una marcia indietro, aggiungendo così
una quarta, anche se poco edificante, r (come reverse o marcia indietro) al manuale delle politiche tariffarie.*Professore di Pratica delle Politiche Pubbliche e Direttore del Policy Observatory, Luiss School of Government
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