Chi vuole usare il cuore di Cecilia

Cecilia Sala, chiusa in carcere, passa quasi in secondo piano. Non è più lei. È solo ciò che rappresenta. È la disumanizzazione della tragedia personale. La speranza allora è che Cecilia non diventi solo un codice binario

Chi vuole usare il cuore di Cecilia
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Quello del giornalista non è un mestiere scontato. Non lo fai se non ci credi ancora un po'. Non è gratis e non è vero, come ogni tanto si sente, che è solo finzione. Quelli che ora dicono e scrivono «ma che ci è andata a fare?» o «se l'è cercata» o «non è stata abbastanza accorta» sprecano fiato e parole. Cecilia Sala è andata a Teheran per fare il suo lavoro, per guardare da vicino quello che accade all'ombra degli ayatollah, per parlare con le ragazze scese in piazza per il diritto di non indossare il velo, per sentire il coraggio e la paura, per fare i conti da donna occidentale con una realtà che spesso si fatica a ricordare. Cecilia Sala è andata lì per raccontare, cercando di tessere le sue storie con la voce, narrando su un podcast, o scrivendo per qualche giornale di vecchia carta. L'importante era andarci di persona. Esserci. Non si è risparmiata

e non ha preso tempo. I poliziotti del regime hanno letto i suoi racconti e le sue interviste in presa diretta. Il 19 dicembre l'hanno arrestata e portata nel carcere dove rinchiudono i dissidenti e gli stranieri fastidiosi. Questa è Cecilia reale, rinchiusa nel carcere di Evin. Il rischio è che nelle chiacchiere italiane circoli solo il suo avatar. Cecilia non è più Cecilia. È uno strumento, un'occasione, una lamentela, un nome su cui gridare viva o abbasso. La grande giostra è già cominciata. Cecilia non è più una giornalista ma una rivendicazione contro il governo. «Cosa aspetta Giorgia Meloni a liberarla?». Come se fosse facile e immediato, in una vicenda che già si colora di «grande gioco», con l'iraniano arrestato a Malpensa evocato come pedina di scambio. Ecco che la disgrazia diventa polemica politica. Cecilia Sala, chiusa in carcere,

passa quasi in secondo piano. Non è più lei. È solo ciò che rappresenta. È la disumanizzazione della tragedia personale. La speranza allora è che Cecilia non diventi solo un codice binario. La sua storia forse servirà, anche qui in Italia, a svelare il buio iraniano.

È lo schiaffo a chi giustifica gli ayatollah perché in fondo sono grandi nemici dell'Occidente. Cecilia ora potrà gridare, ripensandoci, che Ahou Daryaei non è pazza e darà voce a Mahsa e le sue sorelle, a tutte le Sherazade torturate e uccise. Lo fa da radicale, mettendoci il corpo, il cuore e lo sguardo.

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