«Chi vorrebbe mai un pennino digitale?». Quando fecero a vedere a Steve Jobs un palmare sul quale si poteva anche scrivere, lui fece una faccia un po' schifata. Aveva in mente il suo futuro iPhone, sul quale si sarebbe fatto tutto usando le dita. Perché mai allora progettare una cosa inutile? Se fosse ancora in vita oggi, vedrebbe tablet della sua azienda su cui si scrive e si disegna con un matitone elettronico, con una sembianza davvero significativa rispetto a quei primi computer con lo schermo touch che lui giudicava un'eresia: «Nessuno potrebbe mai volere un Pc in cui deve toccare il display». E invece...
Insomma, in tutti questi anni, da quel 5 ottobre 2011, i fan della Mela hanno fatto a gara per raccontare che non sarebbe andata così, che quell'azienda che lui aveva fondato e che poi aveva portato nella Storia dopo averla ripresa in mano qualche anno dopo il suo licenziamento, con Steve in vita avrebbe fatto ancora «wow». Probabilmente, diciamolo, producendo tablet sempre più computer e matitoni digitali, che però sarebbero diventate cose di cui non potevi fare a meno. Ma non perché adesso non lo siano, ma perché te lo diceva lui. Il suo credo era proprio questo, creare un desiderio da vendere prima ancora di un oggetto che poi davvero ti cambia la vita: «Non puoi semplicemente chiedere alle persone cosa vogliono e poi provare a darglielo - affermava a chi gli chiedesse conto del miracolo Apple -. Nel tempo in cui riesci a costruirlo, loro già vorranno qualcosa di nuovo».
E quindi: chi era Steve Jobs? E cos'è davvero diventata Apple? A dieci anni dalla sua morte, prevista ma arrivata come una fucilata tramite le breaking news della Tv, la cosa di cui si continua più a discutere del fondatore è quanto al sua assenza abbia cambiato il nostro destino. Un gioco forse per nostalgici, se non fosse che è impossibile dimenticare quanto il genio non segua una linea retta. E che in tecnologia cambiare idea o vederne fallire una è praticamente un vanto: «La tecnologia è nulla: quello che è davvero importante è avere fede nelle persone». Lui ce l'aveva, soprattutto in se stesso.
Non c'è prova di cosa sarebbe successo se non fosse stato rapito così presto - aveva solo 56 anni quando il tumore l'uccise -, ma a mondo di sicuro manca il suo genio. Un genio del male, sostiene qualcuno: irascibile, cattivo, egocentrico. Però poi la verità forse è che Steve era semplicemente un uomo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Capace (dice la leggenda) di licenziare qualcuno in ascensore solo perché l'aveva salutato nel modo sbagliato, irrefrenabile (questo si sa) con le sue sfuriate nelle riunioni a cui nessuno avrebbe mai voluto partecipare. Succede dappertutto, in realtà, negli uffici del mondo, ma nessuno ha fatto la stessa rivoluzione. Non era un filantropo, faceva business, anche spregiudicato. Ma alla fine era Steve, un uomo con la sindrome della realtà distorta, che pensava che il mondo vero fosse quello nella sua testa. Non è una malattia, anzi, e la magia è stata far diventare quel mondo reale per tutti. Come quando, la sera precedente all'inaugurazione del primo Apple Store di Cupertino, fece cambiare tutti i tavoli perché non gli piacevano. «Non è possibile», gli dissero. «È possibile» rispose lui. Fu possibile.
Apple segue ancora oggi quell'obbiettivo, seppur usando come chiave del successo mezzi diversi: gli iPhone, gli iPad, i Mac, ci sono ancora, ma ciò che ti fa fare «wow» è quello che c'è dentro. Quei servizi che - certo - macinano miliardi e miliardi di dollari, ma a noi permettono di avere la vita in tasca. E di poterla comandare semplicemente con un tocco di dito. Chi dice che questa non è più la Apple di Jobs, non ha capito insomma che mettere Tim Cook al suo posto è stata la sua ultima grande invenzione.
Che era questo, in fondo, il suo vero segreto: andare oltre l'impossibile, perché «l'innovazione è quello che distingue un leader di follower». E oggi, forse aveva previsto anche questo, di followers in giro ce ne sono sempre troppi: anzi, sempre di più. Travestiti da leader.
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