La ricerca scientifica non è un hobby e non si improvvisa. Non basta la buona volontà e non va avanti con il volontariato. Servono finanziamenti e non sono soldi buttati. La pandemia da Sars Cov 2 ha mostrato in modo drammatico la necessità di studiare l'universo che ci circonda. Il ruolo degli scienziati non è quello di andare in televisione come personaggi del momento. La ricerca è altro. È fatica. È studi. È laboratori. Sono anni di investimenti umani e economici, di sfide, dubbi, strade che si intersecano e progetti che durano anni e anni. Tutto questo costa. La realtà è che in Italia il lavoro scientifico per troppi anni è stato considerano non rilevante.
È da qui che nasce la lettera che 15 scienziati, da Luciano Maiani a Giorgio Parisi, da Alberto Mantovani a Massimo Inguscio e Angela Bracco, hanno scritto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e a Gaetano Manfredi, ministro per l'Università e la ricerca. Al centro c'è una questione strategica: dove indirizzare i soldi del Recovery. Il governo non ha ancora presentato un progetto. È una delle preoccupazioni dei vertici europei e anche del presidente Mattarella. Il timore è che si stia perdendo tempo, con la maggioranza impegnata a riconoscere se stessa e con una crisi politica che offusca l'orizzonte. Che posto ha la ricerca scientifica nel programma di ricostruzione di un Paese soffocato dal virus? Ancora una volta non sembra centrale. Quello che chiedono i quindici scienziati è di non ripetere sempre gli stessi errori: «Occorre il coraggio di una svolta ambiziosa». Servono 15 miliardi in cinque anni.
Ecco un passaggio della lettera. «Purtroppo, nella discussione politica degli ultimi giorni, la ricerca sembra uscita dai radar del Recovery Fund. Questo ci spinge a tornare pubblicamente sull'argomento per ribadire la nostra proposta e fornire un quadro più preciso delle scelte di altri governi". Secondo i ricercatori "l'investimento di 15 miliardi di euro in 5 anni, pari al 7% della cifra stimata per l'Italia nel piano Next Generation, ci permetterebbe di propiziare e accelerare la rinascita che verrà». Non è un caso che l'Europa abbia ribattezzato il piano Recovery in Next Generation Ue. Serve a dare un senso di prospettiva. L'idea di pensare al futuro e alle generazioni che verranno. Non può essere un progetto con lo sguardo corto. Molti paesi europei si stanno già muovendo. «L'Italia - secondo il paino per gli investimenti scientifici di Ugo Amaldi - investe in ricerca circa lo 0,5% del Pil. La Francia investe lo 0,75%, mentre Danimarca, Finlandia e Germania sono all'1 per cento. Per non parlare della situazione extra-Ue; Israele e Corea del Sud investono, rispettivamente, il 4,9% ed il 4,5%».
Il piano proposto dal fisico italiano prevede un incremento di un miliardo e mezzo a partire dal 2021. In questo modo si raggiungerebbero investimenti pari all'1,1% del Pil nel 2026, «agganciando» così la quota della Germania. Si aspetta la risposta del governo.
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