Q uesto è il tempo dell'egolatria. Egolatria è il culto di se stessi portato allo zenit, l'amore di sé che arriva a occupare ogni minuscola porzione del nostro tempo, della nostra vita, del nostro pensiero e del nostro agire. Sono anni, uno o due decenni, che l'egolatria ha cominciato a dominare il mondo. Voi potrete sempre dire: beh, a me non capita. Io penso anche agli altri: ai miei cari, ai miei amici, alle persone con cui condivido lavoro, tempo libero, vacanze. Vi capisco: anch'io vorrei poter dire: non mi riguarda. Ma, in un modo o nell'altro, l'egolatria ci riguarda tutti. Tutti abbiamo involontariamente cominciato a idolatrare noi stessi molto di più di quel che fosse «normale» farlo una trentina d'anni fa. Nei social network, nell'abitudine a sbandierare qualsiasi nostra abitudine, qualsiasi nostro comportamento, qualsiasi pensiero ci passi per la testa, da «condividere» (to share, parola chiave di questa epoca) col nostro pubblico, l'egolatria è diventata norma, comportamento diffuso e abitudine quotidiana.
Il «villaggio globale» di cui parlavano i sociologi negli anni Sessanta è tornato a essere, in realtà, un villaggio insieme globale e particolare, il piccolo (o grande, ha poco importanza) cortile in cui noi quotidianamente esponiamo noi stessi al giudizio degli altri, simbolicamente condito da like o dislike, da pollici alzati o versi. Questa esibizione continua di sé, dei propri pensieri, del proprio privato, ha un risvolto anche nel vestire? Certamente, come tutte le cose, anche il nostro abito, che è poi la facciata con cui ci presentiamo al mondo, è sottoposto a un continuo giudizio di chi ci sta intorno, di chi ci sta vicino. L'egolatria diffusa, quasi obbligatoria, che ha ormai invaso anche la nostra sfera più privata, fa sì che anche il nostro approccio al vestire sia cambiato: più attento, a tratti quasi maniacale, più permeabile alle mode, ma nel contempo anche più vario, più aperto ai cambiamenti e in un certo senso anche all'autocritica. In qualche modo, più coraggioso.
A dispetto dei trend e degli studi che mettono in guardia dal sempre maggiore rischio di conformismo diffuso, anche nell'abbigliamento, io credo invece che il modo di vestire mantenga oggi più che mai (anche) un valore fortemente identitario, intimo, privato, che fa a pugni con la spettacolarizzazione sistematica di sé e della propria immagine veicolata dai social. Vero è che, per molti ragazzi, seguaci degli (e delle) influencer più alla moda e con maggiori visualizzazioni, il vestire si riduce spesso a pura immagine, griffe senza sostanza, proiezione di modelli culturali imposti. Ma, in realtà, è proprio nel rapporto intimo, segreto, con ciò che contiene il nostro armadio, che si nasconde il segreto di una sottile resistenza all'egolatria diffusa. Il rapporto con ciò che possediamo e con ciò che amiamo, che abbiamo comprato o che ci è stato regalato, ma che col tempo abbiamo fatto diventare parte integrante del nostro modo di essere, di esistere, di stare al mondo, quell'abito o quel capo che ci rappresenta e ci simboleggia fin nel profondo, è il vero antidoto al vestire come adesione acritica ai modelli dominanti del mondo.
L'abito realmente amato che riusciamo a «sentire» come nostro, che amiamo per il rapporto fisico che intratteniamo con lo spessore del suo tessuto, la sua morbidezza o ruvidezza, non importa, ma qualcosa che ha a comunque che fare con la tattilità, con la sensualità del materiale di cui è composto, col suo vibrare sotto i nostri polpastrelli prima ancora che per come appaia o meno in fotografia o sullo schermo di uno smartphone, è il vero toccasana che ci libera, mentalmente e spiritualmente, dall'evanescenza, dalla superficialità e dal conformismo di un mondo sempre più perso nel culto, tutto virtuale, della trasformazione del sé in puro spettacolo ed evanescente idolatria dell'ego.
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