Pare che subito dopo il discorso della distruzione tenuto domenica sera al Comitato Centrale Palestinese Abu Mazen abbia detto ai suoi, alla Mukata, «Potrebbe essere l'ultima volta che mi vedete qui». Tristezza, sconfitta, abbandono. È il 13° anno, compiuto ieri, di una presidenza senza successi, di cui mai si sono rinnovate le votazioni dal 2005, quando fu eletto all'indomani dell'Intifada. Domenica ha festeggiato il compleanno maledicendo Trump al culmine di un lungo e stravagante discorso: «Yihareb beitak» («Venga distrutta la tua casa»). Un linguaggio da suk. Abu Mazen ha 82 anni e in molti si sono chiesti se non sarebbe il tempo di pensare alla pensione. Il discorso dettato dalla frustrazione ripete i leit motiv della sua politica: il rifiuto della legittimità della presenza ebraica.
Quindi, quando ha detto che potrebbe cancellare l'accordo di Oslo non ha detto niente di nuovo: è morto da anni sul rifiuto palestinese di riconoscere il diritto del popolo ebraico alle sue radici storiche e quindi sulla speranza di buttarlo in mare, come diceva Gamal Nasser. Più di ogni esclamazione su Gerusalemme, sul rifiuto del contatto con gli americani, sul rifiuto di tornare a parlare di pace ciò che fa più impressione è la lezione di storia che ha voluto propinare: «Si è voluto portare qui gli ebrei dall'Europa (con la Shoah, vista come una specie di fiction colonialista ndr) per proteggere gli interessi europei nella regione. Chiesero all'Olanda (!!) che aveva la flotta più grande di trasportare gli ebrei... è un progetto colonialista che non ha connessione con l'ebraismo». Dopo questo ha di nuovo chiesto all'Inghilterra di scusarsi per la dichiarazione Balfour, che riconosceva il diritto degli ebrei a «un focolare nazionale in Palestina».
Abu Mazen recupera una posizione tipica della sua generazione: gli ebrei sono intrusi, il sionismo un movimento coloniale in cui l'ebraismo non c'entra, pompato dall'avvento Shoah, sempre, secondo lui, esagerato nel significato per fini politici. La sua tesi di laurea fu su questo. Anche la sua memoria delle trattative con Olmert, il cui scoglio fu il «diritto al ritorno», ha spostato il contenzioso sul Giordano. Abu Mazen ha riproposto la cancellazione dello Stato Ebraico, ha imputato a Trump di volergli sottrarre Gerusalemme, e ha annunciato che respinge ogni contatto con la Casa Bianca ribadendo con furia anche il rifiuto a incontrare l'ambasciatore David Friedman. Tutti all'inferno: un grido di disperazione nel vedersi all'improvviso abbandonato sulla questione di Gerusalemme mentre il vecchio mallevadore, Obama, preferiva i palestinesi agli israeliani; nell'assistere alla inutilità della predilezione Europea; nel rendersi conto che i grandi Paesi Sunniti, soprattutto l'Arabia Saudita e l'Egitto, sono molto più interessati a avere un buon rapporto con gli Stati Uniti che con i Palestinesi.
Invece di 125 milioni di dollari Trump sta decidendo di mandare all'Agenzia per i profughi palestinesi soltanto 60 milioni e diventa reale la minaccia di tagliare per intero i 300 milioni all'Autorità. La vittoria anti Trump ottenuta dai Palestinesi all'Onu ha ottenuto meno voti del previsto.
La linea di rifiuto li porta nelle braccia di Hamas, che a loro volta puntano su Hezbollah e gli iraniani, con la simpatia di Erdogan.
Abu Mazen non ha tuttavia chiuso tutte le porte: con la sua solita tecnica, ha solo minacciato rotture, ha lasciato in piedi la collaborazione dei servizi di sicurezza e gli accordi del passato, ha ripetuto la parola «pace». Non si sa mai. L'America è sempre l'America.
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