
Rimettiamo in vigore il reato di abuso d'ufficio, dice la Cassazione, anche se il Parlamento lo ha abrogato. Dopo la condanna a risarcire i profughi della nave Diciotti, la Suprema Corte rifila un altro duro colpo al governo Meloni: a conferma della tendenza all'inasprimento delle tensioni tra politica e magistratura. Stavolta a venire preso di mira dalla Corte è uno dei provvedimenti più simbolici varati in questo biennio dall'esecutivo di centrodestra, l'abrogazione del reato d'abuso d'ufficio: una misura garantista fortemente voluta dal governo Nordio, e invocata da tempo da amministratori locali di ogni partito. L'abuso, sostenevano sindaci di tutta Italia, era una tagliola per il loro lavoro, la fonte di migliaia di avvisi di garanzia che finivano per il 99 per cento in niente ma intanto rovinavano le vite e bloccavano le giunte. Il 9 agosto 2024 il Parlamento, su proposta del governo, ha cancellato dal codice penale il reato di abuso d'ufficio.
Ma il reato abolito dalla politica rischia ora di tornare in auge per via giudiziaria. Con una ordinanza depositata nei giorni scorsi la sesta sezione ha chiesto alla Corte Costituzionale di dichiarare illegittima la legge che ha abrogato l'abuso: la conseguenza immediata sarebbe il ritorno in vigore del reato, e un numero incalcolabile di amministratori pubblici che pensavano di essere usciti dal tunnel giudiziario vi ripiomberebbero. D'altronde - lo scrive testualmente la Cassazione nella sua ordinanza - la vecchia legge funzionava come «minaccia». Quindi rimettiamola in vigore.
Come arriva la Cassazione a scavalcare il voto del Parlamento e a chiedere il ritorno del reato? L'ordinanza, scritta dal giudice Fabrizio D'Arcangelo, si aggrappa alla convenzione internazionale contro la corruzione siglata dalla conferenza dell'Onu a Merida nel 2003, e ratificata dal Parlamento italiano nel 2009. I trattati internazionali, dice l'ordinanza, contano più delle leggi. E la convenzione di Medina obbligava l'Italia a mantenere in vigore il reato di abuso.
Che le cose stiano davvero così è quantomeno dubbio. Il reato di abuso d'ufficio non esiste in nessuno dei principali paesi europei aderenti alla convenzione (l'unico reato simile, il Rechtsbeugung tedesco, non viene quasi mai applicato) senza che l'Onu abbia niente da ridire. E peraltro il testo letterale della convenzione non stabilisce affatto che i paesi abbiano l'obbligo di prevedere il reato, ma semplicemente di considerare («obligation to consider») se inserirlo o meno nei loro codice. L'Italia ha considerato, e dopo anni di dibattiti, ha valutato di rimuoverlo: ma questo per la Cassazione è incostituzionale.
Meritevole di nota il ragionamento attraverso il quale gli ermellini arrivano a trasformare la «valutazione» in «obbligo». Secondo l'ordinanza, l'abrogazione del reato avrebbe dovuto venire «compensata dall'adozione di meccanismi, preventivi o repressivi, penali o amministrativi volti a mantenere il medesimo standard di efficacia ed effettività nella prevenzione degli abusi funzionali». Di quale efficacia si può parlare, se (dati forniti dal piddino Antonio De Caro quando era presidente dell'Anci, l'associazione dei comuni) il 98,9 per cento degli incriminati veniva poi prosciolto? La risposta della Cassazione è semplice: il reato «aveva una portata generale ed estremamente efficace, anche sul piano preventivo, in ragione della previsione della minaccia della sanzione penale». É questo effetto minatorio che la Cassazione rimpiange e la Corte Costituzionale viene invitata a ripristinare.
Perchè il Parlamento cancellando il reato «ha dato prevalenza incondizionata all'autonomia di amministratori e funzionari nell'esercizio della funzione pubbliche, sacrificando integralmente la tutela dei cittadini contro gli abusi posti in essere ai loro danni». La parola passa alla Consulta, chiamata un'altra volta a fare da arbitro in uno scontro tra poteri dello Stato.
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