Essere competitivi oppure accettare il mondo così come viene senza troppo impegnarsi nel confronto con gli altri? La domanda nasce dalla tragedia della studentessa che a inizio febbraio si è uccisa in università a Milano e dal discorso di lunedì all'università di Padova di Emma Ruzzon, pronunciato a nome di tutti gli studenti: «Siamo stanchi di piangere coetanei uccisi dalla competizione». C'è una via di mezzo in cui si possono esprimere le proprie qualità ma evitando di misurarsi con gli altri? Insomma, si può camminare sulle strade della vita affermando le proprie qualità senza quello stress che certamente non fa bene alla salute? No, non va così. Ci si può accontentare, e al diavolo la competizione, il merito e tutto quello che porta a non dormire alla notte perché il giorno dopo ci si deve confrontare con il professore, i voti, i colleghi che vogliono passare avanti. Ne ho conosciuti tanti di miei studenti che ragionano in questo modo: un bel 18, e a casa (o in qualunque altro posto che non richieda lo stress di misurarsi con gli altri). Ma quanti giovani frustrati ho poi visto cadere in depressione, proprio perché hanno fatto un passo indietro e non hanno accettato il confronto. E si pentono. La virtualità non aiuta i ragazzi. Virtualità significa sostituire l'esperienza reale con quella creata da sistemi informatici: tanti messaggi via web che costruiscono amicizie, amori (virtuali) che poi alla prova dell'esperienza - dei fatti - si dissolvono. La virtualità spesso porta a non confrontarsi con la vita vera, e quando questa s'incontra talvolta non si possiedono gli strumenti per reggerla. E si crolla. Cosa saggia sarebbe tenere insieme queste complessità psicologiche ed esistenziali, in cui c'è la virtualità, la realtà, la competizione, i propri meriti da far valere. Ci vuole un'educazione che non porti alla rinuncia e non esasperi il confronto con se stessi e con gli altri. Famiglia e scuola devono formare anche in questa direzione ma barcollano sotto il peso delle loro crisi. Allora si guardi allo sport. Non è casuale che la nostra tradizione classica vedesse nello sport uno strumento cruciale dell'educazione. Non ci si può sottrarre alla competizione: lo sport è il gioco che rappresenta la migliore metafora della vita.
Competizione attraverso delle regole, perché in loro assenza l'anarchia porta alla distruzione. A vincere è il merito: le proprie capacità premiate attraverso regole condivise. Il rinunciatario ha la presunzione di non mettere alla prova il proprio merito, rispettando gli altri e i loro meriti.
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