«La commissione Antimafia è cosa nostra». Da settimane sui giornaloni i professionisti dell'antimafia (con la a minuscola) rosicano in vista della convocazione - oggettivamente tardiva - dell'organismo parlamentare che si occupa di criminalità organizzata, ogni anno con risultati trascurabili, vedi le risultanze nella scorsa legislatura, valse al presidente Nicola Morra una scorta e poco più. Ieri nel mirino è finita Chiara Colosimo di Fdi (tondo), presidente designata, per i rapporti con l'ex Nar Luigi Ciavardini, rivelati da Report nella sua ignobile caccia agli avvocati che ha fatto infuriare le Camere penali. «Intreccio maleodorante», blatera su Repubblica Lirio Abbate. «Sbigottiti e increduli», si dicono al Fatto alcuni familiari delle vittime di mafia e terrorismo, visto che la commissione a loro dire dovrà indagare sui rapporti tra neofascisti e mafia negli anni '92-'94. Un filone, quello della presunta Trattativa Stato-mafia, fatto a brandelli da sentenze e Cassazione e ringalluzzito dalla foto fantasma di Silvio Berlusconi che il gelataio amico dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, Salvatore Baiardo, avrebbe mostrato a Massimo Giletti.
Qualcuno maligna che i meloniani vogliano rimpiazzare la Colosimo ma sarebbe l'ennesimo regalo al circoletto della sedicente e inconcludente antimafia, anche per evitare lo stigma di «impresentabile» già impresso a vita al negletto sottosegretario alla Giustizia Andrea Del Mastro Delle Vedove, reo di aver rivelato i giochini Pd sul 41bis.
È dal Dopoguerra che la mafia campa sulle disgrazie del Mezzogiorno, con la complicità mai fino in fondo accertata di schegge impazzite dello Stato, come lamenta il capo dello Stato Sergio Mattarella. Le inchieste lenzuolata fanno il solletico ai boss ma trascinano nel fango troppi innocenti e fanno stramazzare aziende sane con lo spietato meccanismo della confisca. Nel frattempo le mafie riciclano giocando in Borsa, nascondono i proventi del money laundering con criptovalute a prova di privacy come Monero, ingrassano i loro conti tra crediti fiscali figli degli scellerati bonus edilizi e mostruose partite di droga in giro per il mondo, come dimostrano le lunghissime indagini in cui la Guardia di Finanza è regina assoluta. La narrazione da sbirri ne ha alimentato la mistica (e il conto in banca di qualcuno), senza mai scalfirne la reputazione. Ci sono luoghi nell'ormai desertificato Sud che per una narrazione sinistra sono impenetrabili, fino a che un cronista come Klaus Davi non li vìola con le sue inchieste (a Reggio Calabria come a Napoli), profanandone una sacralità di facciata e svelandone l'inganno, molto ben raccontato da Alessandro Barbano nel suo omonimo libro L'inganno. «Cosa me ne faccio della trattativa Stato-mafia se a San Luca non c'è un asilo, una biblioteca?», è lo sfogo di Davi al Giornale.
Intanto, processi come quelli sulla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si incartano per la faciloneria con cui alcune Procure si sono bevute versioni di comodo arrivate sulla scrivania. Altri magistrati inseguono fantasmi mentre i narcomiliardi passano allegramente sotto il loro naso. Follow the money, diceva Falcone. Già: anche l'antimafia con la a minuscola è diventata opaca. Troppi soldi in nome della legge circolano tra beni confiscati, associazioni, icone nemiche dei boss e amiche dei magistrati pescate con due mani nella marmellata.
Attilio Bolzoni sul Domani dice che della commissione è il caso di farne a meno: «Dimentichiamola per un po', in attesa di un contesto meno velato». Forse qualcuno ha paura che, per una volta, la commissione Antimafia faccia davvero pulizia in casa propria.
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