Apocalittici contro riduzionisti: la guerra di parole che spacca l'Italia

Otto mesi dopo l'inizio dell'emergenza tra virologi e politici manca ancora un linguaggio comune per spiegare il Covid

Apocalittici contro riduzionisti: la guerra di parole che spacca l'Italia

È più facile che Donald Trump riconosca la vittoria di Joe Biden che virologi, politici e tuttologi trovino un linguaggio comune per raccontare il Covid agli italiani spaventati, arrabbiati, recalcitranti. Sembra impossibile uscire dalla dialettica terroristi contro negazionisti, rigoristi contro fatalisti.

Prendete ieri. Il millenarista Walter Ricciardi, consigliere del ministero, in tv fa il profeta di sventura: «Sulla base dei nostri dati i prossimi mesi saranno terribili». Gli fa eco Massimo Galli del Sacco di Milano, che twitta: «L'informazione alla camomilla non serve e non è rispettosa». Camomilla? Diciamo piuttosto 12 caffè corretti. Ma che cosa è andato storto per cui a un certo punto abbiamo dovuto scegliere per quale squadra parteggiare, come tifosi in un derby? Boh. Noi qui diamo le formazioni e facciamo la cronaca della partita.

Il 31 maggio (355 nuovi casi) Alberto Zangrillo del San Raffaele la spara grossa in tv: «Il virus è clinicamente morto». Lo ripeterà più volte. Ma il numeroso esercito degli apocalittici muovere le sue truppe anche durante il cessate-il-fuoco. Sentite Ranieri Guerra (nomen omen), direttore aggiunto dell'Oms, il 26 giugno (259 nuovi casi): «Il Covid è come la Spagnola, che andò giù in estate e riprese ferocemente a settembre e ottobre, facendo 50 milioni di morti nella seconda ondata». Ta-pùm.

Tutto e il contrario di tutto. Francesco Vaia dello Spallanzani di Roma il 14 luglio (114 casi) invita i giovani «a non creare più assembramenti per tutelare genitori e nonni». Il virologo Guido Silvestri, della Emory University di Atlanta il giorno dopo (163 contagi) ribatte: «Solo dei completi imbecilli o dei fascisti del pensiero possono costringere i nostri giovani a non socializzare». Il 27 luglio (170 casi) l'acuto del cantante Andrea Bocelli: «Il lockdown mi ha umiliato, l'ho violato». Apriti cielo. «Sono stato male intepretato», dovrà correggere. Il 29 luglio (289 casi) Vittorio Sgarbi alla Camera sbotta: «Non prendete per il culo i bambini sulle mascherine». Il critico d'arte è il paladino dei negazionisti, vietando da sindaco l'uso del dispositivo a Sutri. Agosto si apre con Matteo Bassetti del San Martino di Genova che dopo aver partecipato a un convegno si difende. «Negazionista? Sono solo ottimista e mi baso sui numeri». Ma i numeri risalgono piano e Ricciardi si agita. Il 20 agosto (845 casi): «A rischio la riapertura delle scuole e le elezioni del 20 e 21 settembre». Si arrabbia pure Palazzo Chigi.

È l'autunno del nostro scontento. I numeri salgono, gli schieramenti si riarmano. Il 12 ottobre (4.619) Roberto Burioni lascia perplessi: «Avrei messo la firma con il sangue a marzo per trovarmi oggi in una situazione come questa». Sicuro sicuro? Il 22 ottobre (16.079) il ct della nazionale, Roberto Mancini, si schiera in campo tra i sottovalutatori postando una vignetta in cui un paziente sostiene di aver preso il virus «dai tg». Era necessario? Il 24 ottobre (19.644) il virologo Andrea Crisanti non vede altra soluzione: «Dobbiamo tornare a chiuderci in casa». Ricomincia l'incubo. Maurizio Viecca del Sacco di Milano il 28 ottobre (24.991) grida: «Avanti così si rischia di morire in ambulanza o in casa, come in primavera». Lo stesso giorno Massimo Clementi del San Raffaele di Milano rema nell'altra direzione: «Basta col terrore, le attuali terapie possono combattere l'infezione». Ci si mette anche il ministro della Salute Roberto Speranza, che facendo pochissimo onore al suo cognome il 1° novembre (29.907) ci raggela: «La curva dei contagi è terrificante».

Il 2 novembre (22.253) Fabrizio Pregliasco dell'università di Milano scandisce: «La seconda ondata è peggiore della prima. La probabilità di cadere nell'infezione è generalizzata». L'esercito del Terrore sta vincendo. Per ora.

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