Arabi, russi e politica: il mistero dei soldi per sostenere l'impero Telegram

L'imprenditore ha incassato finanziamenti per due miliardi da oligarchi vicini a Putin

Arabi, russi e politica: il mistero dei soldi per sostenere l'impero Telegram

C'è chi, come il politologo russo Ilya Grashenkov, avanza l'ipotesi di una trattativa tra Pavel Durov e gli uomini del Cremlino: non più tardi di sei settimane fa un gruppo di investitori schierati in campo dalle autorità di Mosca ha rilevato per 5,4 miliardi di dollari Yandex, la Google russa. Il suo fondatore, Arkady Volozh, contrario alla guerra ucraina, può ora godersi un dorato esilio in Olanda; il potere ex sovietico, invece, ha fatto un passo avanti verso l'obiettivo cullato da tempo di una rete internet sotto il pieno controllo statale. Lo stesso modello, dice Grashenkov, era nell'ordine delle cose anche per Telegram. E di fronte a questo scenario c'è chi va perfino oltre, ipotizzando che l'operazione potesse essere tra i desideri di Vladimir Putin, ma non di Durov stesso, che avrebbe scelto di consegnarsi alla giustizia occidentale piuttosto che affrontare le ire del Cremlino con un sgarbo.

In realtà capire il perché dell'«auto-consegna» di Durov è ancora difficile, se non impossibile. Anche per l'alone di segretezza di cui il geniale imprenditore russo ha sempre voluto circondarsi. Nella primavera scorsa il creatore di Telegram è venuto meno alla sua ferrea regola del basso profilo per due volte nel giro di un mese, con una intervista al Financial Times, e un colloquio televisivo con Tucker Carlson, interlocutore preferito di Donald Trump e recente intervistatore di Vladimir Putin. Si tratta di eventi entrambi degni di nota, visto che Durov non incontrava un giornalista dal 2017.

Nell'intervista al quotidiano britannico il capo di Telegram passa in rassegna temi di cui non ha mai voluto parlare in precedenza. Come quello relativo al valore di Telegram. Gli analisti internazionali hanno valutato la fortuna personale del fondatore tra i 14 (Forbes) e i 9 (Bloomberg) miliardi di dollari. L'interessato sembra sposare la cifra più alta visto che dice di aver ricevuto offerte per Telegram (la cui proprietà va divisa con il fratello Nikolai) superiori a 30 miliardi. Non male per una società che ha in tutto 50 impiegati a tempo pieno; e poco importa che in poche ore, subito dopo l'arresto del fondatore il Toncoin, la cripto-valuta del gruppo, abbia perso circa il 20% per un controvalore pari a 2,7 miliardi.

Durov parla anche di una possibile quotazione in Borsa e annuncia che dal 2025 la società dovrebbe, per la prima volta, raggiungere il pareggio se non un piccolo utile. È questo un elemento importante per capire le scelte dell'imprenditore russo. Nonostante l'indubbio successo, Telegram non ha mai avuto un modello di business in grado di auto-sostenersi. Gli introiti derivano quasi totalmente dalla poca pubblicità e dalle sottoscrizioni a pagamento di Telegram Premium che garantisce dei servizi aggiuntivi rispetto ai normali account. Secondo gli analisti di Ukrainska Pravda (uno dei maggiori giornali ucraini) che hanno dedicato al gruppo di Durov lunghe inchieste, si tratta di poco più di 140 milioni di dollari annui di fronte a spese di oltre 600.

Per finanziare la sua creatura Durov aveva raccolto 1,7 miliardi di dollari tra circa 200 investitori, quasi tutti americani. L'obiettivo era la nascita della criptovaluta del gruppo (Toncoin, appunto) che è stata pensata per integrarsi con le funzionalità della app di messaggistica originale. A bloccare l'operazione è stata l'autorità di controllo dei mercati Usa, la Sec, che di fronte alla mancata richiesta di autorizzazione e alle inesistenti informazioni finanziarie sul gruppo ha dato lo stop. Durov ha dovuto restituire quasi interamente i soldi incassati, e darsi da fare per trovarne degli altri. Ci è riuscito attirando investitori del mondo arabo (come il fondo degli emirati Mubadala) e molti finanzieri russi attivi a Dubai e dintorni. A unire questi ultimi è quasi sempre una caratteristica comune: gli ottimi rapporti con il Cremlino.

Si spiega così il giudizio degli ucraini (e le attenzioni della Ukrainska Pravda) sullo stesso Durov: da noi è considerato quasi un eroe libertario, dalle parti di Kiev uno dei tanti oligarchi che risolvono i problemi finanziari grazie ai buoni uffici del Cremlino. E in effetti, guardando gli investitori che hanno impegnato circa due miliardi di dollari nella società, qualche sospetto viene.

Il più famoso è l'immancabile Roman Abramovich, da sempre finanziatore dell'entourage di Putin, uomo abituato a muoversi con abilità tra i corridoi più oscuri del potere, super-sanzionato da quasi tutti i Paesi occidentali. Tra gli altri ci sono David Yakobashvili, ex presidente degli industriali russi, di origine georgiana, accusato di aiutare Mosca ad eludere la sanzioni facendo passare le merci dai porti del Mar Nero. C'è il banchiere (Bank 131) Dmitry Yeremeev, l'unico uomo d'affari ad aver ottenuto un licenza bancaria russa negli ultimi cinque anni.

C'è Sergei Azatyan's, a capo del fondo InVenture che ha rilevato riviste e periodici di alcuni editori stranieri attivi in Russia, riportandoli in mani amiche del Cremlino. Conoscendo i rapporti tra business e politica dalle parti di Mosca riesce difficile pensare che tutti si siano mossi senza un gradimento dall'alto.

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