Armita uccisa come Mahsa. Per il velo

Dichiarata la morte cerebrale per la sedicenne aggredita dalla polizia perché senza hijab

Armita uccisa come Mahsa. Per il velo
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Armita Garavand, la 16enne iraniana aggredita il primo ottobre da una guardia nella metropolitana di Teheran per essersi tolta il velo, sarebbe ormai in coma irreversibile. «La morte cerebrale sembra certa», riporta il sito dell'agenzia iraniana Borna. Gli attivisti hanno accusato la polizia morale di averla aggredita perché non indossava l'hijab, ma le autorità hanno insistito che fosse solo svenuta. Armita è ricoverata nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale di Fajr nella capitale. Alla madre Shahin Ahmadi è stato impedito di entrarvi per vedere la figlia e, dopo le sue proteste, è stata trattenuta in custodia. Nelle scorse settimane si era diffusa la notizia che il regime stesse tenendo in vita la ragazza per evitare ulteriori proteste come fu nel caso di Mahsa Amini. Ma i medici nei giorni scorsi avevano informato la famiglia di Armita che le sue condizioni erano disperate.

Molti iraniani hanno tracciato un parallelismo tra il caso di Armita e quello di Mahsa, la giovane curda morta nel settembre 2022 dopo essere stata detenuta dalla polizia morale di Teheran per aver presumibilmente indossato l'hijab «in modo improprio». Testimoni hanno affermato che è stata picchiata dagli agenti, ma le autorità hanno attribuito la sua morte a condizioni di salute preesistenti. Le proteste antigovernative sono scoppiate in tutto il Paese quando Amini è morta dopo tre giorni di coma. Centinaia di persone sono state uccise e migliaia detenute nella violenta repressione da parte delle forze di sicurezza.

Nel frattempo continua la stretta del regime degli Ayatollah anche su altri fronti. Ieri un tribunale ha condannato due giornaliste che avevano riferito proprio della morte di Mahsa l'anno scorso. Niloufar Hamedi, 31 anni, e Elaheh Mohammadi, 36, dovranno scontare rispettivamente sette e sei anni di prigione dopo essere state giudicate colpevoli di «cooperazione con il governo ostile» degli Stati Uniti e «collusione contro la sicurezza nazionale». Le due donne sono detenute dal settembre 2022 nella terribile prigione di Evin a Teheran, e secondo i familiari, sono tenute in isolamento. Le reporter hanno respinto le accuse e hanno insistito sul fatto che stavano facendo il loro lavoro.

In particolare Hamedi, del quotidiano Sharq, è stata la prima giornalista a dare la notizia dell'arresto di Mahsa, e ha poi fotografato il padre e la nonna della ragazza abbracciati in ospedale dopo aver appreso della sua morte. Ha pubblicato lo scatto su Twitter con la didascalia: «L'abito nero del lutto è diventato la nostra bandiera nazionale». Mohammadi, giornalista del quotidiano Hammihan, ha scritto invece un articolo sul funerale di Amini nella sua città natale, Saqqez. Ha descritto come centinaia di persone in lutto hanno gridato «Donna, vita, libertà», uno degli slogan principali delle proteste.

Ed è proprio in quell'occasione che cominciarono anche a essere bruciati i primi veli, un gesto di protesta che poi scatenò un movimento che scosse il Paese. La magistratura iraniana intanto ha condannato pure l'avvocato di Mahsa a un anno di carcere per «propaganda» contro lo Stato dopo aver «parlato con i media stranieri e locali del caso».

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