Bagno d'umiltà per il premier: stavolta ammette la sconfitta

Renzi dopo la batosta: "Serve una seria riflessione". Minoranza Pd in subbuglio, il 24 direzione di fuoco

Bagno d'umiltà per il premier: stavolta ammette la sconfitta

Scarico di benzina il lanciafiamme, a questo punto basta l'accendino. Dopo il tonfo udito fino in riva all'Arno, il Pd brancola nel buio e, secondo le giaculatorie del segretario-premier, s'interroga. «Serve una riflessione per dare una lettura non banale del voto», annuncia il Capo. «Riflettiamo», ripetono in un'eco infinita dall'ultimo pasdaràn delle ore liete al primo dei gufi che, com'è noto, al buio potrebbe pure vederci benissimo. Perciò Matteo Renzi mica si fida, e comincia a parlare un po' per enigmi e un po' alla Veltroni. «È un voto che non si deve drammatizzare, ma neanche minimizzare. Bisogna aprirsi al nuovo senza scadere nel nuovismo. Un segnale c'è, ma non vedo elementi di novità. È un messaggio che deve far riflettere e il Pd rifletterà nella direzione del 24 giugno». Giorno di San Giovanni, che a Firenze un vole inganni, ricorda il leader. Ignorando che anche a Milan, tanto per dire, fa minga ingann.

«Serve una discussione vera, franca e sincera», dice infine Renzi l'Oscuro, nella quale nessun argomento potrà essere escluso a priori. Persino se il segretario «abbia fatto bene o fatto male». Ed è per questo, si suppone, che il Nazareno è precipitato da ieri in un tunnel di preoccupazione cupa che non promette niente di buono ma, almeno, è auto-riflettente, proprio come il Capo. Cui lo chef pluristellato Bottura, ricevuto a Palazzo, ha fatto riemergere pulsioni riposte negli anfratti della memoria. «A me le lasagne della nonna continuano a emozionarmi», dice. E tutti a chiedersi perché, e se sia vero che «non si sia rottamato abbastanza», e se ora il Pd verrà scosso dalle fondamenta (la Serracchiani pare pronta a preparare primi bauli e beauty-case: «Non sono attaccata alla poltrona», fa sapere a scopo preventivo).

La verità è che la botta è stata forte, inattesa, foriera di foschi presagi sull'autostima del Principe, al punto che i suoi cortigiani non sanno più bene come assecondarlo. E se Giachetti l'altra sera aveva assunto su di sé ogni colpa, ieri ha capito che si poteva buttare il peso pure sul partito, «una zavorra». Lo stesso ha fatto il bolognese Merola. Il torinese Fassino, ancora sotto choc, considerato che non ha nemmeno più nulla da perdere, s'è fatto sfuggire un senso «più politico» alla propria defenestrazione, che chiama in causa decisamente il governo e l'anti-renzismo che ormai unisce un Paese che non ne può più.

Allarmi che inducono Orfini a parlare di congresso entro ottobre e il «vice» Guerini a sminare il campo da possibili conseguenze sul governo. Sul partito invece dovrebbero esserci, anche se il giovane Speranza, leader della minoranza, rovina tutto focalizzando che il problema starebbe nel doppio incarico. Segretario e premier: auto-centrismo che per il Pd sta nell'atto fondativo e costituisce l'assicurazione sulla vita per chi va a Palazzo Chigi (chiedere a Letta jr). Più fondata, in teoria, la minaccia costituita da Cuperlo, che parla di «sconfitta severa e merita risposte chiare», tra le quali ci sarebbero modifiche all'Italicum in grado di riaprire una dialettica a sinistra (subito respinto al mittente). Cuperlo si dichiara «non convinto che si perde perché non si è spinta la rottamazione fino in fondo, o perché si vince solo con volti giovani e belli, e se ne esce con la distinzione tra cariche».

Quando si perde, dice, «non penso a chi siede sulla poltrona del segretario ma a quale linea politica esprime». È il quesito che si pongono in tanti, fuori e dentro il Pd. Dove tutti ormai chiedono un cambiamento, cosa che varrebbe come dire che si «ricambia verso». Un po' più di qua, un po' più di là, finché peste lo colga.

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