N iente colpi di testa, siamo scozzesi. E siamo giovani. Nel paese di Macbeth i calciatori «under 12» potrebbero essere costretti a giocare soltanto rasoterra in seguito a un provvedimento che la Scottish Football Association (la federcalcio scozzese) si appresta a varare per tutelare la loro salute.
Tutto nasce da uno studio pubblicato qualche mese fa della Stirling University di Glasgow che disegna una patente correlazione tra la salute dei calciatori e il gesto tecnico del colpo di testa. Uno studio condotto su oltre 7mila calciatori professionisti nati tra il 1900 e il 1976 ha evidenziato infatti che gli eroi del pallone soffrono di una maggiore incidenza di malattie neurodegenerative o collegate al motoneurone (come la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica) rispetto alla comune popolazione. E non si tratta di differenze numericamente trascurabili. Terzini e centrattacchi, una volta appesi gli scarpini al chiodo, hanno manifestato un tasso di mortalità dell'1,7 per cento contro lo 0,5 normale, quindi ben 3,5 volte di più, per le malattie neurodegenerative, e la proporzione sale addirittura a quattro volte per la Sla e a cinque per l'Alzheimer, mentre per il Parkinson è «appena» il doppio.
Naturalmente non è il singolo colpo di testa a far male, ma la somma di tutte le «capocciate» di un'intera carriera a far insorgere questa sorta di malattia professionale. Si calcola infatti che un calciatore in una singola partita possa colpire di testa da sei a dodici volte il pallone. Se poi si considerano gli allenamenti e il fatto che in alcuni ruoli, come le punte e i difensori centrali, si svolgono apposite sedute di focus su quello che è considerato un «fondamentale» del calcio, si può ipotizzare che ogni calciatore colpisca con la testa il pallone migliaia di volte in una stagione, e decine di migliaia in una carriera. E sempre con il massimo della forza (altrimenti a che serve?). Abbastanza per produrre una sfilza di microtraumi che alla fine procurano dei danni al cervello.
Naturalmente oltre ai numeri ci sono anche le storie a colpire l'opionione pubblica. Come quella di Jeff Astle, attaccante e leggenda del West Bromwich Albion, che nel momento d'oro della sua carriera, tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, segnava buona parte dei suoi tanti gol (174 in 361 partite in maglia biancoblù) proprio grazie al prepotente stacco di testa. Astle morì nel 2002, all'età di nemmeno sessant'anni, affetto da una demenza che il coroner che condusse l'inchiesta sulla sua scomparsa definì industrial desease, una malattia professionale.
Da qui l'idea di ridurre il rischio restringendo il periodo di esposizione al pericolo. E siccome i colpi testa sono parte integrante del gioco, e non ha senso vietarli in assoluto, a Edinburgo hanno pensato di proteggere almeno i più piccoli, in attesa che futuri studi possano chiarire con maggiore chiarezza se questa misura ha senso e se allargarla eventualmente. «Ci sono dubbi - spiega un portavoce dell'associazione Headway sulle lesioni al cervello - sul limite di età e le ipotesi suggeriscono i 12 anni. Questo vuol dire che un tredicenne sia al sicuro colpendo la palla di testa? Dobbiamo capire dove porre la linea del rischio accettabile».
Ma naturalmente sono nate le prime polemiche alimentate dagli allenatori e dai genitori che temono che i propri pargoli siano danneggiati nella loro futura certamente luminosa carriera agonistica. La loro tesi? «Il calcio non è uno sport per signorine». Ma, aggiungiamo noi, nemmeno per cerebrolesi.
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