Lo hanno chiamato ieri «la cucinetta», «hamitbahon« come lo chiamava Golda Meir: è il nuovo gruppetto di ministri che con Netanyahu deciderà dell'andamento del conflitto in corso, dopo che il primo ministro ha dissolto il gabinetto di guerra da cui si sono dimessi il 9 giugno Benny Gantz e Gadi Eisenkot. La decisione è stata presentata come una conseguenza dello stato di fatto: chi se ne va e chi resta, ovvero il ministro della difesa Yoav Gallant, quelli degli affari strategici Ron Dermer e il presidente del partito moderato religioso Shas, Arieh Dery.
La verità, si dice, è che si tratti di un garbato rifiuto della proposta dei discussi ministri di destra, Itamar Ben Gvir e Betzalel Smotrich, di entrare a far parte del sancta sanctorum del conflitto. Le loro idee creano sempre tsunami in Israele e all'estero. Comunque le decisioni più importanti, come per esempio la dichiarazione di guerra agli Hezbollah, devono essere comunque prese dal governo nel complesso. Al momento, la situazione è incerta e delicata, richiede prudenza e stabilità, e questo oltre l'impegno ripetuto per una vittoria su Hamas, è quello che sembra dominare le decisioni di Netanyahu. Il premier si prepara alla visita negli Stati Uniti praticando un atteggiamento equilibrato, che non alieni l'interesse degli Usa né lo sforzo di Biden di far piacere la sua alleanza con Israele ai suoi elettori: ci vuole quindi prudenza sul campo, specie a Rafah dove l'operazione è a buon punto, e aiuti umanitari. Ma deve anche rispondere alla naturale spinta dell'esercito e del Paese ad agire sul campo, i 12 eroici soldati uccisi in 24 ore, le loro storie di gioventù, il sogno irrealizzato di liberare un grande numero di ostaggi e di cancellare la leadership mostruosa di Sinwar, si disegnano molto lentamente; Israele si batte eroicamente ma soffre all'aperto, da democrazia ferita, infrangendo i normali riti di guerra; al Nord la situazione è esplosiva, i cittadini sfollati chiedono di intervenire.
La sfida è tre fronti: la battaglia di Rafah procede molto bene, ma troppo lenta per timore di colpire la popolazione civile. C'è chi calcola che solo poco più di 500 armati su 10mila là acquartierati siano stati eliminati; l'esercito si ferma per far passare i camion di aiuti, ma su sedici, undici finiscono nelle mani di Hamas che li cattura e ne rivende le merci. Le gallerie infinite rallentano le operazioni e gli Usa con il consesso internazionale sin dall'inizio hanno imposto a Israele di combattere con una mano legata dietro la schiena.
Al confine libanese, da due giorni Israele rispetta la festa musulmana del Chorban, il Sacrificio, ed Hezbollah è quasi fermo, dopo però uno sbarramento di 96 missili e droni da Metullah fino ad Haifa, a Tiberiade e a Safed. In uno di questi, 160 grossi proiettili sono stati lanciati in 90 minuti. Centomila cittadini hanno dovuto abbandonare la loro casa, le scuole, il lavoro, i morti e i feriti sono storie quotidiane.
L'emissario americano Amos Hochstein ieri si è incontrato con Netanyahu e altri, la missione di Biden è: no al conflitto. Hochstein cerca un generale cessate il fuoco anche con la liberazione degli ostaggi, Gaza più Hezbollah. Poco credibile. Nasrallah rifiuta la realizzazione dell'accordo che prevede il ritiro degli Hezbollah al fiume Litani, La decisione incombe, il veto americano è totale.
Il terzo fronte è una folla non grande ma compatta che fa della defenestrazione di Bibi il suo primo scopo, e chiede le elezioni anticipate, descrivendolo come un cinico politico che non vuole i rapiti a casa: ma la proposta Netanyahu è proprio quella che Biden auspica e che solo Hamas non vuole.
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