«Questa non è una fase politica ordinaria, l'assetto del governo sarà fuori dalle nostre competenze». È stato Nicola Zingaretti, ieri pomeriggio, a sancire davanti al Comitato politico del Pd il fatto che sarà il presidente del Consiglio incaricato a definire la squadra dei ministri.
Il che non vuol certo dire che all'interno dei partiti della nuova maggioranza, e in particolare nel Partito democratico, la situazione si sia tranquillizzata. Certo, il Nazareno ha spiegato che dal gruppo dirigente dem arriva un «sostegno unanime» al nuovo capo del governo, e che c'è la piena disponibilità ad appoggiare «con il massimo impegno» la sua agenda. Mettendo a tacere il forte malessere interno per la fine dell'«alleanza strategica», sotto la coperta del governo Conte, con M5s; e per la necessità di ritrovarsi alleati con la Lega salviniana.
Ma la definizione della squadra e quindi dei ministri Pd che entreranno nel nuovo gabinetto avrà ripercussioni di notevole entità anche sugli equilibri interni. I candidati ministri ufficiali sono tre: gli uscenti Dario Franceschini (ora alla Cultura) e Lorenzo Guerini (Difesa) e l'entrante Andrea Orlando, che potrebbe puntare alla Giustizia, ruolo già ricoperto nei governi Renzi e Gentiloni e che sicuramente sarà lasciato vacante dal grillino Bonafede, che nessuno (tra quanti hanno a cuore un minimo di Stato di diritto nel nostro Paese) vuol rivedere in quel posto. Il problema, però, è che i posti disponibili saranno, probabilmente, solo due. E che il segretario Zingaretti rischia di non avere nessuno dei «suoi» dentro il governo, se alla fine prevalesse il criterio della continuità e venissero confermati due nomi forti come appunto Franceschini e Guerini. Certo, il primo fa parte della maggioranza zingarettiana, ma non viene dalla Ditta post-Pci, mentre il secondo - anche lui di origini democristiane - è capo della minoranza interna, molto forte nei gruppi parlamentari. La conferma dei due, insomma, sancirebbe lo spostamento dell'asse politico del governo, estromettendo l'attuale guida Pd proprio nel momento in cui inizia a manifestarsi apertamente il pressing di chi punta ad un congresso in tempi ravvicinati per sostituire l'attuale segreteria prima delle prossime elezioni, perché ovviamente sarà il segretario in carica in quel momento a fare le liste elettorali. E l'asse Bonaccini-Gori sembra già pronto a manifestarsi come alternativa congressuale.
Tanto che ieri si inseguivano voci vorticose: secondo una delle ipotesi Guerini sarebbe rimasto fuori dalla squadra ministeriale per poi ottenere la delega ai Servizi segreti, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, lasciando quindi il posto a Orlando. Meno gettonata l'ipotesi di spedire il grillino Fico a fare il candidato sindaco a Napoli per lasciare il posto di presidente della Camera a Franceschini: i Cinque Stelle, infatti, hanno già fatto sapere che - avendo perso con Conte la presidenza del Consiglio - non hanno alcuna intenzione di lasciare Montecitorio a un esponente Pd.
Ma a circolare con insistenza era anche un'altra voce: quella secondo cui lo stesso Zingaretti potrebbe entrare nel governo. Un modo per non essere tagliato fuori dalla cabina di regia della prossima fase politica. Paradossalmente, il dramma che vive la leadership del Pd è speculare a quello che vive Salvini: il capo della Lega sa che se nel governo Draghi entrerà chi ne è stato fin dall'inizio fautore, come Giorgetti, il baricentro politico della Lega si sposterà inevitabilmente fuori dal suo diretto controllo.
E lo stesso vale per il Nazareno. «Ma se entri tu al governo dai via libera all'ingresso di Salvini. E per noi un governo con Salvini diventa insostenibile», è stato l'argomento - difficilmente aggirabile - opposto al segretario dem.
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