«E adesso chi si occuperà di studiare i prossimi vaccini?». La domanda è di sicuro interessata, visto che a farla è stato ieri Brent Saunders, tra i più conosciuti manager del settore farmaceutico americano. Ma la mossa di Joe Biden, che ha deciso di appoggiare la richiesta di deroga alle regole sui brevetti internazionali per i prodotti anti-Covid, si presta in effetti a una lettura complessa e non del tutto in linea con il giubilo incondizionato con cui è stata in molti casi accolta.
Per il presidente americano era una specie di passo obbligato: l'aveva promesso in campagna elettorale, giurando una lotta senza quartiere al Covid. Ma anche tra i suoi esperti e in generale in campo democratico non sono mancate le resistenze. Luciana Borio, la dottoressa italo-brasiliana a suo tempo nominata da Obama a capo della ricerca della Food and Drug Administration, era, e rimane, contrarissima: «Non c'è nessun motivo per festeggiare, la novità non contribuirà affatto a rendere disponibili più vaccini nel mondo».
A spiegare con grande efficacia le ragioni di chi vede con sfavore la decisione è stato un analista finanziario sul New York Times: «Per il settore farmaceutico è un colpo durissimo. È come se il governo dicesse: non occupatevi di nulla che sia veramente importante per »Il Paese, perchè se lo farete e troverete qualche cosa di buono, ve lo porteremo via di sicuro».
Il paradosso è che il colpo durissimo alla protezione della proprietà intellettuale arriva da una Paese che già nella Costituzione del 1787 prevedeva un articolo sui brevetti, e con la Us Patent Law della metà dell'Ottocento ha creato il primo sistema organico di protezione della proprietà intellettuale (la prima norma specifica è invece della Repubblica di Venezia che nel 1474 attribuì diritti esclusivi di utilizzo a chi inventava o semplicemente importava tecniche produttive originali).
Per le autorità americane lo «spariglio» e la rottura con quasi due secoli di storia non sono solo il mantenimento di una promessa elettorale ma anche un'arma geopolitica per contrastare la diplomazia dei vaccini condotta in questi mesi da Cina e Russia (che per altro possono contare su prodotti molto meno efficaci e sicuri) e per ricandidarsi al tradizionale ruolo guida ricoperto a livello internazionale. Di fronte a questo atteggiamento c'è la posizione europea, incarnata in senso diametralmente opposto da Emmanuel Macron, entusiasta o poco meno della scelta Usa (e del resto la francese Sanofi ha dovuto alzare bandiera bianca sul fronte vaccini e non ha per il momento nessun brevetto valido da difendere) e quella di Angela Merkel, freddissima sul tema (e qui invece, la tedesca Biontech è parte attiva in causa). In mezzo c'è Ursula von der Leyen, che cerca di mediare, mantenendo una atteggiamento prudentissimo.
In tutti i casi la novità di ieri non avrà conseguenze sui tempi brevi. Come hanno fatto subito notare le società farmaceutiche interessate (Biontech e Pfizer in testa) non sono i brevetti l'unico, e secondo le società farmaceutiche il principale, problema, che ostacola la diffusione del vaccino. A pesare sono soprattutto le difficoltà nel trasferire la tecnologia necessaria.
Un portavoce di Pfizer ha messo in fila i passi necessari per produrre una fiala con i necessari requisiti di affidabilità: ci vogliono 280 componenti differenti, provenienti da 86 fornitori, con sede in 19 Paesi diversi. Azzerare le royalties non basta per mettere in piedi una macchina produttiva così sofisticata.
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