Il tentacolo della piovra jihadista rispunta nel Caucaso seminando morte e terrore, dove non è mai scomparsa la minaccia nonostante la «normalizzazione» in Cecenia.
Un commando di terroristi, ben organizzati e con il classico piano dell'attacco multiplo, ha ucciso 20 persone, compresi 15 agenti di polizia in Daghestan. I feriti sono 26, alcuni gravi. Il Daghestan è una repubblica russa abitata da una maggioranza musulmana, ma con un intreccio di gruppi etnici e religiosi. La matrice sarebbe legata allo Stato islamico del Caucaso, ma l'aspetto clamoroso è che i «martiri» farebbero parte di una potente famiglia locale legata al partito Russia unita di Vladimir Putin. Il colpo jihadista è scattato domenica. Prima a Derbent, vicino alla capitale, dove i cristiani ortodossi celebravano la Pentecoste. Un prete è stato sgozzato e la sua chiesa data alle fiamme. Poi i tagliagole, che colpivano in maniera indiscriminata con la tattica del 7 ottobre in Israele, ma senza prendere ostaggi, si sono spostati nella capitale, Machackala, assaltando un posto di blocco della polizia e la sinagoga. Dopo ore di battaglia sono intervenuti i corpi speciali, che secondo le dichiarazioni ufficiali avrebbero eliminato «tutti e cinque i terroristi». Difficile che un'azione complessa del genere sia stata portata avanti solo da un pugno di uomini.
Dal Cremlino hanno fatto sapere che Putin non parlerà, per ora, alla nazione, legando, però, «l'attacco in Daghestan a quello in Crimea» dove un missile americano lanciato dagli ucraini e intercettato dalla contraerea russa ha fatto strage di civili.
Fra gli assalitori jihadisti in Daghestan, eliminati dai corpi speciali, ci sarebbero due figli e un nipote di Magomed Omarov, il governatore di un distretto del Paese affiliato a Russia unita, il partito di Putin. Omarov ha detto le dimissioni ed è stato arrestato, ma il connubio suona inquietante.
«Il ramo del Caucaso settentrionale dello Stato islamico, Wilayat Kavkaz, ha probabilmente condotto un attacco complesso e coordinato contro chiese, sinagoghe e strutture di polizia nella Repubblica del Daghestan il 23 giugno» ha scritto l'Institute for the Study of War, centro studi di Washington. La filiale russa di Al-Azaim, interfaccia mediatica dello Stato islamico del Khorasan, annidato in Afghanistan, ha pubblicato una dichiarazione elogiando «i fratelli del Caucaso».
In marzo la costola afghana dello Stato islamico ha compiuto una strage alla Crocus Hall alle porte di Mosca e adesso i tentacoli rispuntano nel Caucaso, che ha una lunga tradizione jihadista. Nel 1999 il superterrorista ceceno, Shamir Basayev, ispirato dal giordano Al Hattab, proconsole di Osama bin Laden, attaccò il Daghestan per instaurare uno Stato islamico, senza successo. Dopo la sconfitta in Cecenia e la nascita dell'Isis in Siria e Irak, anche dal Daghestan sono partiti in centinaia per unirsi alla guerra santa senza confini. Uno dei filmati di propaganda dell'Isis riprendeva i volontari ceceni in battaglia in Irak che urlavano «Putin, Khadirov (il leader di Grozny fedele a Mosca, nda) stiamo arrivando».
Negli ultimi anni il ribollire jihadista in Daghestan sembrava sotto controllo, ma lo scorso ottobre, dopo lo scoppio della guerra in Medioriente, una folla inferocita ha invaso lo scalo della capitale e assaltato un aereo proveniente da Israele. In seguito all'attacco al Crocus l'antiterrorismo russo sosteneva di avere debellato una cellula del terrore nel Caucaso.
L'operazione jihadista in Daghestan dimostra che i tentacoli della piovra, da Bin Laden all'Isis, spuntano ancora. E stranamente attaccano più ad Est e che ad Ovest con la benedizione della costola afghana del Califfato.
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