La cosa più complicata è metabolizzare le sconfitte: vale nella vita, nello sport e vale nella politica. E ciò che è successo nella notte di Capodanno in piazza del Duomo a Milano, per una sinistra che ha scommesso tutto sull'integrazione degli stranieri, si delinea come la più grande delle sconfitte. Una decina di ragazze violentate da giovanissimi immigrati di seconda generazione, cioè italiani nati e cresciuti qui, e per giunta nella piazza più iconica della città, sono il più drammatico ritorno alla realtà per una città che più di ogni altra si fatta vanto in tutti questi anni di essere «modello» e «laboratorio» di integrazione. Così non è. Non lo è stato in via Padova non lo è purtroppo in quartieri-ghetto come piazza Selinunte che ormai sono «polveriere» pronte a saltare per aria. Così Milano si accorge all'improvviso, nella notte degli auguri e della speranza, di essere come Colonia cinque anni fa, sfregiata da un «rito» sessuale di gruppo tanto sfrontato quanto violento che lascia senza parole tutti e per undici giorni anche il suo sindaco Giuseppe Sala. E le indagini non c'entrano. Ma Milano si accorge soprattutto di essere come Parigi che Parigi non è più in molte delle sue «banlieue», diventate città nella città, Stato in un altro Stato con proprie leggi, proprie regole e propria cultura.
Sembrava che questi problemi non riguardassero la città più europea d'Italia. Sembrava. Ma forse ci si era solo illusi o più probabilmente non si è avuta l'onestà intellettuale di ammetterlo. Certo, tanti stranieri, la maggior parte, che qui lavorano e si guadagnano onestamente da vivere, sono una risorsa e il primo passo verso quella multiculturalità che è ormai la cifra di tutte le grandi metropoli. Ma c'è un prezzo da pagare. E ciò che è successo a quelle ragazze a Capodanno è un segnale chiaro del presente e del futuro che ci aspetta.
Quel «Taharrush gamea», la molestia collettiva tanto diffusa nei Paesi Nordafricani, è un messaggio culturale reazionario, una porta chiusa sul nostro modo di vivere. E la cosa più inquietante è che arrivi proprio da ragazzi nati e cresciuti qui, figli di immigrati di seconda e terza generazione, giovani che frequentano le nostre piazze. Ma anche le nostre scuole.
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