L'entusiasmo per la notte dei ballottaggi, nel Pd, sta già lasciando il posto agli interrogativi sul futuro, su una coalizione che non c'è e su una partita, quella per le elezioni nazionali tra meno di un anno, che sarà molto diversa da quella di domenica scorsa. E su cui iniziano a emergere linee molto diverse nel partito.
Da una parte chi (come il ministro Andrea Orlando e il vicesegretario Provenzano) spinge per una coalizione alla Mélenchon con grillini, bersaniani e un Landini sempre più tentato dall'avventura politica, che segni una netta cesura con l'esperienza Draghi. Dall'altra l'ala riformista che chiede di lasciare M5s alla sua deriva e di riaffermare «l'agenda Draghi» (senza nascondere la speranza di un bis).
Giovedì Enrico Letta ha convocato la direzione del partito. Appuntamento inevitabilmente auto-celebrativo, che servirà a sottolineare un successo che nessuno si aspettava così netto, ma dal quale non bisogna farsi ipnotizzare: «Nelle città abbiamo vinto. Ma alle politiche non c'è il doppio turno, e non vota il 40 ma il 70%: se il centrodestra non si divide ha molte più chance di prevalere, con il Rosatellum», avverte il gueriniano Alessandro Alfieri. Senza contare che in ottobre dalla Sicilia rischia di arrivare una mazzata: «Stiamo facendo primarie con M5s nella totale incertezza: non hanno neanche un candidato, la loro frammentazione rischia di destabilizzare anche noi», dice il siciliano Fausto Raciti.
Già il giorno dopo la Direzione, il leader dem rischia di trovarsi in una posizione scomoda: Dario Franceschini ha organizzato per venerdì quella che minaccia di diventare, come avverte un esponente della minoranza riformista, «una riedizione della foto di Vasto, che come è noto non portò fortuna al centrosinistra». Il riferimento alla famosa istantanea del giulivo (ma elettoralmente sfortunato) abbraccio tra Bersani, Di Pietro e Vendola, nel 2011, non è casuale: Franceschini, gran fautore di una «alleanza permanente» coi 5S, radunerà sullo stesso palco, al convegno della sua corrente, Letta, il ministro Speranza di Leu e Conte. Proprio nel momento di massima debolezza di quest'ultimo, e dopo le confuse minacce di rottura con il governo fatte filtrare ieri dal capo di M5s. Ovviamente Letta non poteva dire no all'invito, ma ci vorrà molta abilità per evitare la trappola. E non esporsi a critiche interne proprio mentre dal Pd iniziano a levarsi voci per chiudere quella stagione. «Abbiamo inseguito per troppo tempo i grillini», dice il governatore emiliano Stefano Bonaccini. Ora serve «una proposta europeista e riformista» che possa «interessare anche chi non si dirà mai di sinistra ma non vuol farsi governare da Salvini e Meloni». Una linea che trova consensi: «Bonaccini ha ragione, temo sia sbagliatissimo dar l'idea che ci sia un'alleanza a scatola chiusa con Conte: le alleanze si fanno sui programmi, e i suoi sono lontani dai nostri», dice l'ex capogruppo Andrea Marcucci. Anche perché, avverte Alessandro Alfieri, «dando l'idea che ancora guardiamo a Conte regaliamo alibi a chi, come Carlo Calenda, rifiuta qualsiasi alleanza con i 5S».
Serve «continuità e coerenza» con l'agenda Draghi, senza «veti né alleanze a tavolino», aggiunge l'ex ministro Valeria Fedeli, sottolineando come la linea «di serietà e chiarezza sull'Ucraina» del Pd abbia premiato. E serve una nuova legge elettorale, sottolinea Fausto Raciti: «Basta perder tempo, va cancellata la quota maggioritaria: le alleanze si fanno dopo, in Parlamento».
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