Cara amica, dimentica Bogart e Casablanca

Sorrido quando leggo le prime parole della tua lettera: "Caro uomo che vorrei". Quel condizionale fa parte della mia vita

Cara amica, dimentica Bogart e Casablanca

Eccomi. Sono qui. Appeso al mio destino. Sorrido quando leggo le prime quattro parole della tua lettera: «Caro uomo che vorrei». Quel condizionale fa parte della mia vita e con gli anni non mi fa neppure più paura. Ho capito che ognuno ha una parte nella vita e la mia è guardare le spalle di chi se ne va. Ma non è questa la cosa peggiore. È restare nella loro vita come un fantasma, come un vuoto, come l'occasione perduta, come un rimpianto, una porta chiusa, una strada sbagliata. Un vorrei, appunto. Sono l'uomo del temporale, dell'improvviso, dell'attimo che si ferma e per un attimo sembra infinito. Sono l'uomo che ti ascolta, ma che sa già che non verrà ascoltato e gli sta bene così. Non ho rimpianti. Non sono deluso. Non ti rinnego. Non rinnego nulla. E qui forse c'è davvero tutta la mia debolezza.

Guardati. Vivi di rimorsi. Dici: «Lui ha avuto paura di vivere senza di me». Bene, io ho avuto paura di vivere con te. Non c'è partita. Stai con lui. Stai con l'uomo che hai scelto, quello che non ti incanta, quello che non ti sorprende, quello stanco dei tuoi cambi d'umore e dei tuoi sogni, quello che dovresti abbracciare quando hai paura. Stai con lui perché è migliore di me. Io ho fatto la scelta più facile: lasciarti andare.

È la paura di affogare nel tuo giorno dopo giorno. È l'angoscia di cadere quando gli altri si aspettano da te la solita magia. Non puoi stare sempre lì a mettere in piedi il solito spettacolo d'arte varia, evocare la pioggia o le stelle o quella strana vibrazione sulla pelle o aprire l'orizzonte dando un volto all'invisibile. Non ce la fai. Non reggi. Non è umano. E allora cominci a creare incertezze a chi si aspetta troppo, per troppo tempo. È una sorta di suicidio, lento, cinico, calcolato, inesorabile. È il suicidio della tua maschera. Non vuoi essere l'uomo delle illusioni, quello con il caleidoscopio in tasca, e neppure quello del quotidiano. Vuoi solo ricominciare la partita, senza pagare il conto del senso di colpa, senza dire game over, senza gridare è finita. E così lasci che lei, tu o chiunque altra, vada via, lasciandole negli occhi una scatola di ricordi. È questo l'inganno. È questa vita da incompiuto, da «quello che avrebbe potuto essere se». Capisci che è molto più comodo? È il gusto di poter dire «suonala ancora Sam».

Non è questo il coraggio. È l'altro, non Bogart, l'eroe. È Victor Laszlo, quello che ti porta via da Casablanca, quello che vedi ogni mattina un po' più vecchio, quello che non ha paura dei giorni che passano. Io no. Io ho un passato troppo pieno e un futuro che mi sfugge, perché arriva troppo in fretta. «Suonala, Sam. Suona mentre il tempo passa». Ma quel tempo riesco a vivermelo solo da solo, perché ho paura dello sguardo dell'altro.

Eccomi, guardami. Io sono l'assente, il rimpianto, quello che poteva esserci. La beffa è che sono esattamente come lui. Stesse vizi, stesse disattenzioni, stesse carezze che diventano sempre più stanche. Sono come lui ma a te ho lasciato un fotogramma di quello che ero. È come in una partita di calcio disgraziata, quando ti appelli a quello che non c'è, quando affidi a lui tutte le tue speranze, quando lo fai diventare l'angelo della vittoria ipotetica. Quando ti illudi che i migliori non sono in campo. È che le cose sono davvero molto più banali e solo chi gioca può perdere. Io vado via prima che la partita finisca. Io non sopporto il fischio della fine. Io scompaio per restare all'altezza delle tue illusioni. E soprattutto delle mie. Tu rimpiangi una promessa non mantenuta. Non è però la tua. È la mia.

Stasera torna da lui. Spegni la sua serie tv preferita. Toccalo, abbraccialo, bacialo. Senti che è vero. E poi cancella il mio fantasma. Butta via il condizionale. È lui il tuo uomo. Io sono solo quello che non tira i rigori.

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