Ormai ci siamo così abituati da darlo per scontato. E qualsiasi voto - che siano europee o amministrative - lo leggiamo come fosse una sorta di elezione di midterm. Solitamente il risultato si riflette sulla tenuta del governo, questa volta - complice anche il cambio di paradigma imposto alla politica dall'entrata in scena di Mario Draghi - i riflettori sono invece puntati sui partiti. In particolare sul centrodestra, che partiva con il vantaggio del pronostico e che ora rischia invece di scontrarsi con una cocente delusione. Colpa non solo dell'affare Morisi e del caso Fidanza - scoppiati a pochi giorni dal voto - ma anche di un approccio al voto piuttosto sconclusionato e conflittuale da parte di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, più impegnati a farsi la corsa uno sull'altro che concentrati sul risultato complessivo. Per il quale, lo ha ribadito proprio ieri Silvio Berlusconi, resta decisivo il voto moderato. «Se si indebolisce il centro liberale, va al potere la sinistra», spiegava ieri il leader di Forza Italia su questo Giornale citando il recente voto in Germania.
Invece il centrodestra si è mosso in ordine sparso, con Salvini e Meloni che hanno giocato uno contro l'altro fin da quando si sono seduti ai tavoli delle candidature. Che - tra veti, controveti e pure qualche ripicca - hanno spesso privilegiato le «quote» piuttosto che puntare su personalità magari più competitive. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, suggellato dal siparietto di giovedì nel quale i due non sono riusciti a incontrarsi all'appuntamento elettorale milanese a sostegno di Luca Bernardo. Poco importa l'abbiano fatto ieri a Spinaceto, periferia a sud di Roma, con tanto di abbracci e selfie a favore di telecamere. A 48 ore dal voto, infatti, è quasi un gesto obbligato. Soprattutto visti gli avvenimenti degli ultimi giorni. Prima lo strappo pubblico di Giancarlo Giorgetti e poi il caso Morisi, hanno di fatto spinto all'angolo Salvini. Mentre la vicenda Fidanza ha fatto andare in fibrillazione non solo Fratelli d'Italia, ma soprattutto Meloni, ben consapevole del rischio che il caso possa avere un forte rimbalzo in Europa. Per tutti e due, dunque, un momento di estrema debolezza.
Il punto, insomma, è come si muoverà il centrodestra dopo che si chiuderanno le urne. Certo, la premessa è capire quanto sarà pesante l'arretramento della Lega - che tutti i sondaggi danno in forte calo e che al Sud è destinata a crollare - e le conseguenze sulla tenuta di Salvini. Le linee Maginot del leader del Carroccio - questo è il sentiment a via Bellerio - sono due. La prima è il ballottaggio a Milano: se Beppe Sala dovesse vincere al primo turno, sarebbe un colpo durissimo. La seconda è la corsa su Fdi: se la Meloni dovesse mettere la freccia e sorpassare il Carroccio come numero di voti, la leadership di Salvini nel centrodestra sarebbe di fatto compromessa.
Cosa che in verità potrebbe succedere comunque. L'arrivo di Draghi, infatti, ha creato uno spazio politico nuovo, che l'ex Bce non ha alcuna intenzione di interpretare in prima persona. Non farà, insomma, lo stesso errore di Mario Monti. Detto questo, il premier ha di fatto spostato le priorità degli italiani: meno urla e più concretezza. Con buona pace dei sovranismi.
Insomma, sintetizza Maurizio Lupi, «senza un centro moderato e forte è tutto il centrodestra a non essere vincente». E sarà quasi certamente questo il cardine del confronto che si aprirà nel centrodestra appena chiuse le urne.
Dipenderà dai risultati dei partiti, certo. Ma è inevitabile che il tentativo sia quello di spostare l'asse verso il centro. Con questo dovrà fare i conti Salvini, che non a caso sta subendo da mesi l'assedio della cosiddetta Lega governista.
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