La Cgil nelle mani di Landini, il comunista con il maglione

L'ex capo della Fiom eletto oggi segretario, Cella «vice» Da avversario si guadagnò il rispetto di Marchionne

La Cgil nelle mani di Landini, il comunista con il maglione

Operaio «dentro». Dunque: orgoglioso del Lavoro, con «elle» maiuscola. Materia che lui vorrebbe fosse insegnata a scuola, ai bambini: «Dignità del Lavoro». Lui che la scuola l'ha dovuta mollare a 15 anni per cominciare, da saldatore, a portare qualche soldo a casa. Per questo, se non altro, avversario rispettoso e rispettato anche dai padroni, come lui continuerebbe a chiamarli se fosse ancora ogni sera accaldato in tv, camicia a quadri, maglia della salute che s'intravede dalle maniche. Come mille volte disse pure dell'ex ad Fiat, Sergio Marchionne, nell'epica stagione dello scontro su Mirafiori e Pomigliano, finito con la vittoria del secondo e l'onore delle armi al primo.

Ecco, se davvero la Cgil volesse ritrovare l'anima, una missione, il senso di un «anno zero» che faccia capire ai giovani perché e come una struttura sindacale oggi possa non essere anacronistica, superata dall'era della disintermediazione e delle caste (facce della stessa medaglia), della furbizia dei rappresentanti sindacali e del lavoro parcellizzato, sminuzzato, somministrato, deriso, forse persino destinato a scomparire (secondo certe secolarismo profetico di casamadre grillina), ecco, allora dicevamo, la Cgil ha veramente fatto «bingo» nell'incoronare segretario oggi a Bari Maurizio Landini, già leader dei «duri» metalmeccanici della Fiom. Uno che non mette veli neppure nel dire cos'è diventato oggi anche il «suo» sindacato: «Una macchina burocratica enorme, che deve rimettersi in moto e cambiare... Una nomenklatura che a volte difende privilegi».

Svolta avvenuta alle 3.30 dell'altra notte, mentre i coltelli che volavano all'interno delle riunioni facevano capire che sì, «stavolta può finire male» e l'avvenire unitario della Cgil sembrava appeso a un filo. Uno spiraglio che, come nelle tradizioni antiche, si concretizzava man mano ci si avviava all'alba: Landini leader, suo «vice» Vincenzo Colla, il «riformatore moderato» secondo le mappe del potere interno, in realtà l'uomo supportato dalla fondamentale componente dei pensionati che avrebbe dovuto riportare la Cgil nell'alveo di una sudditanza almeno psicologica al (morente) Pd. Proprio il contrario della politica emersa negli ultimi anni di segreteria Camusso, specie nell'era Renzi. Motivo per il quale la scelta di Landini, indicato dalla segretaria uscente, è stata spacciata e contrastata dall'interno come pericolosa «continuità». Con ciò dimenticando che i rapporti tra Camusso e Landini avevano trovato finalmente un comune denominatore solo un paio d'anni fa, e sulla base della comune contrarietà prima al Job's Act di Renzi e quindi al disastroso referendum costituzionale renziano. Di quel patto del 2016 oggi si vedono i frutti, dopo che Landini ha sacrificato molto del suo prorompente modo di stare in tivù ma neppure una virgola del suo credo. Credo che ha il buon sapore del pane di una volta, ma che non c'entra assolutamente nulla né con una «restaurazione», né con l'immobilismo, e neppure con certo radicalismo inconcludente. Lui è uno che firma i patti, e studia. Anche gli avversari, anche i leader politici che lo affascinano (capitò con Renzi, meno con i grillini), poi li valuta, eventualmente li sfida in campo aperto. Così che ci si può aspettare un atteggiamento per nulla benevolo nei confronti del governo Conte, e non solo per la presenza dei leghisti, quanto per la già dichiarata (da Landini) «inconsistenza» di una manovra «sbagliata perché blocca l'economia e non fa ripartire gli investimenti». Anche perché, per un operaio «vero», come lui, «il punto vero è crearlo, il lavoro. Non basta il reddito di cittadinanza, bisogna combattere la corruzione, l'evasione fiscale e far ripartire le infrastrutture. Non ha senso bloccare i cantieri a prescindere».

Certo, Maurizio Landini, classe d'acciaio 1961, è un comunista con i due pugni levati in alto, come nel film di Verdone. Non esistendo più il Pci, «solo due tessere ho in tasca: quella della Cgil e quella dell'Anpi». Marchio d'origine, per lui, quello della lotta partigiana, in virtù del babbo cantoniere, Guerino, nome di battaglia durante la Resistenza: «Pataia». Madre casalinga e cinque figli da sfamare sull'Appennino reggiano, a Castelnuovo ne' Monti.

Oggi casa sua è a San Polo d'Enza, un tiro di schioppo dal castello di Matilde, dove s'umiliò Enrico IV. «Tutte le settimane anch'io vado a Canossa, esercizio utilissimo», dice e non sembra che ci sia tanto da scherzare.

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