«P rima di mettere in croce gli agenti di polizia penitenziaria bisognerebbe interrogarsi sulle responsabilità politiche del ministro Alfonso Bonafede. Pur sapendo quanto era successo a Santa Maria Capua Vetere il ministro è rimasto stranamente silente su questa vicenda per tutto il mandato. Eppure per risolverla bastava una sua visita al carcere, seguita dalla punizione dei responsabili e dalla denuncia alla magistratura. Anche perché i fatti erano in parte già noti. Mancavano i filmati, ma il resto si sapeva. C'è da chiedersi perché il ministro abbia deciso di non agire innescando un'inchiesta e una diffusione di filmati devastante non solo per la Polizia Penitenziaria, ma per l'immagine dell'Italia nel mondo».
La domanda non arriva da Matteo Salvini che ieri è stato il primo a tirar in ballo l'ex ministro di Giustizia Alfonso Bonafede per la vicenda delle violenze sui detenuti del Reparto Nilo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. A proporre il quesito, invitando a darsi delle risposte, è una fonte del Giornale ai vertici del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. La gravissima e prolungata inerzia del ministro grillino solleva infatti interrogativi inquietanti. Il principale riguarda l'identità di chi ai vertici del Dap o del Ministero di Giustizia, ha al tempo autorizzato l'azione punitiva. «Quell'incursione non è avvenuta per decisione del capo reparto di polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, né del direttore del carcere che in quei giorni non c'era. Il raid è stato deciso ed eseguito racimolando un gruppetto di agenti nei vari istituti della regione aggregandoli in un fantomatico Nucleo Operativo d'Intervento creato a livello regionale» - racconta al Giornale Daniela Caputo, segretario di Dir PolPen, il sindacato dei funzionari di Polizia Penitenziaria. Ma a quel punto c'è da chiedersi se il vero decisore sia soltanto l' «indagato» Antonio Fullone, al tempo responsabile del Provveditorato del Dap in Campania. Il via libera al fantomatico «Nucleo Operativo» potrebbe esser stato preceduto da consultazioni con Francesco Basentini, il Direttore del Dap, fedelissimo di Bonafede, dimessosi il primo maggio 2020 in seguito allo scandalo sugli arresti domiciliari concessi ai boss mafiosi per l'emergenza Covid. Di certo stando al procuratore Maria Antonietta Troncone, responsabile dell'inchiesta sulle violenze, Basentini rispose con un «hai fatto benissimo» ad un Fullone che lo informava di avere disposto la «perquisizione straordinaria» del 6 aprile 2020. Resta da chiedersi se, oltre all'informativa a posteriori, vi sia stata un'autorizzazione preventiva concordata da Fullone e dal Direttore del Dap. Un'intesa preventiva con i vertici del Ministero e del Dap spiegherebbe l'atteggiamento «stranamente silente» di Bonafede sulla vicenda. Pur di coprire se stesso e il fido Basentini il ministro a 5 Stelle avrebbe messo la sordina ad una vicenda che poteva venir risolta con una serie di duri provvedimenti interni seguiti da una collaborazione con la magistratura. Un vicenda che, per come viene raccontata ora, sembra, invece, figlia esclusiva della ferocia e della voglia di vendetta di un gruppo di spregiudicati secondini. L'ipotesi di una responsabilità diretta dell'ex ministro grillino è stata ventilata ieri da Matteo Salvini. «Il ministro era Bonafede, chiedete cosa è successo a lui... il ministro venne il Aula a dirci che era tutto sotto controllo... evidentemente non era così» - ha detto il capo della Lega prima di raggiungere Santa Maria Capua Vetere ed incontrare la Direttrice e gli agenti del carcere.
«Sono qui a ricordare che chi sbaglia paga, soprattutto se indossa una divisa. Questo però - ha detto Salvini al termine della visita - non vuol dire infangare e mettere a rischio la vita di 40mila appartenenti alla polizia penitenziaria».
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