Come ampiamente previsto la Bce non ha aumentato i tassi, senza però escludere che possa riprendere a farlo in una delle prossime sedute del direttivo. Comunque sia la notizia di per sè non deve creare grandi entusiasmi sul futuro del calo dei tassi, ma neppure non essere considerata come un passaggio positivo.
Ma oltre ai tassi sono parecchi gli atri motivi che debbono spingere il governo le aziende e i lavoratori a ripensare ai modus operandi delle nostre attività d'impresa. Mi riferisco ai capitoli delle filiere, delle dimensioni delle imprese, della insufficiente capitalizzazione con mezzi propri dei soci, azionisti e proprietari se, società di persone o ditte individuali, dell'eccessivo debito che, in presenza di tassi in crescita come gli attuali, rischia di mandare a gambe all'aria un elevato numero di imprese. È da molti decenni che «piccolo e bello», tanto amato dalla politica di ogni colore e sottovalutato dalle rappresentanze datoriali, ha necessità impellente di sottoporsi a vari tagliandi, ricordandosi che la nostra filiera di ogni settore è di primaria importanza per le nostre produzioni e quindi l'export. Essa è però costituita da piccole e micro imprese, le quali forniscono in gran misura componentistica e sono sempre più sottoposte a vessazioni da parte dei committenti, quasi totalmente a capitale straniero, in merito a contratti i cui prezzi sono restrittivi, così come lo sono i tempi di consegna e le penalità in caso di ritardi. Essere piccoli in un mondo globale e in un Paese come il nostro, nel quale impera la burocrazia e i costi che essa genera insieme ai ritardi, diventando già da sola un rischio impresa e costi eccessivi che difficilmente, o meglio quasi mai, posso essere riversati sui committenti, sopratutto se questi prendono decisioni dall'estero, lasciando alle filiali italiane solo la responsabilità di ottenere il massimo, concedendo il minimo.
La nostra economia soffre di bassa crescita da almeno 5 lustri, nei quali si sono alternate alla guida del paese tutte le forze politiche, e contemporaneamente, il numero delle grandi, e purtroppo anche medie imprese, è continuativamente diminuito, una diminuzione che ha portato a trasferire le posizioni di capi filiera totalmente in mani estere. Adesso tra costo del denaro, perdita del potere di acquisto delle famiglie, calo della domanda di export, ci si avvicina a dover fronteggiare in maniera costruttiva il capitolo dell'importanza delle dimensioni per le imprese, in modo che possano ottenere sia ordini che finanziamenti bancari a condizioni meno stringenti, e che sostanzialmente riposizionino l'economia italiana nella posizione che merita, ovvero di sapere crescere con il passo delle altre due prime della classe a livello europeo, la Germania e la Francia. Le quali va ricordato nello stesso periodo di 25 anni hanno fatto crescere il loro Pil di oltre il doppio del nostro e non certo perché i loro imprenditori siano migliori dei nostri, anzi quelli italiani hanno una capacità di sapere gestire e organizzare il proprio business meglio degli altri e per questo di saper cavalcare l'export come forse nessun altro sa fare, sopratutto se si valuta in rapporto alla capacità economica di investire e di pagare il debito a condizioni certamente di più favorevoli di quanto viene concesso alle nostre piccole e micro imprese, non certo per volontà delle banche italiane, ma in ragione di un merito creditizio che difetta di capitale proprio e sovente anche di limitata trasparenza.
Governo e rappresentanze datoriali dovrebbero identificare una politica industriale nella quale siano dominanti norme
fiscali accattivanti per chi investe risorse proprie per l'evoluzione e la crescita delle dimensioni aziendali, con l'obiettivo di riprendere almeno in parte la guida a capitale italiano delle nostre straordinarie filiere.
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