Il cognome, Merola, tradisce subito i natali non emiliani ma campani (è nato a Santa Maria Capua Vetere) del riconfermato sindaco di Bologna. Le origini non gli hanno impedito di vincere e rivincere nella città del ragù e delle due torri, anche perché se è un meridionale trapiantato, è lì da quando aveva cinque anni, mica da ieri. Un disastro il suo primo approccio con Bologna. «A scuola mi chiamavano terrone e in mensa c'era la pasta al ragù bolognese, mi faceva vomitare e la nascondevo senza mangiarla».
Una bestemmia da quelle parti. Ma se dal punto di vista gastronomico Merola ha scelto una strada difficile, da quello politico si è invece integrato perfettamente nell'habitat bolognese, entrando da subito, fin dal liceo, nelle fila della sinistra e poi tesserandosi al Pci (nel 1981), il partito dominante. Prima della carriera politica nel Pci, poi Pds, poi Ds quindi Pd, Merola ha fatto il casellante autostradale a San Lazzaro, nel Bolognese, per poi passare alla Cgil nella categoria trasporti.
Suo padre, maresciallo della polizia, lo voleva ufficiale, tanto che da piccolo lo chiamavano «il capitano» e gli regalavano solo armi giocattolo. Invece ha fatto carriera, ma nel partito: da funzionario ad assessore della giunta Cofferati (di cui è stato il pupillo), fino a sindaco di Bologna nel 2011, dopo le dimissioni di Delbono, travolto dal «Cinzia-gate». Se si guarda alla classifica 2016 dei sindaci più amati (realizzata da Ipr Marketing per il Sole24Ore) non sembra che il suo consenso sia dilagante, anzi: per lui 85esima posizione su 101 Comuni presi in considerazione, il meno amato tra tutti i sindaci dell'Emilia-Romagna. Ma Bologna per il Pd non è una città qualsiasi, e quindi si può vincere, come ha rifatto Merola, anche senza convincere. Certo, aiuta avere dalla propria parte i sindacati (la Cgil di Bologna ha invitato ufficialmente «lavoratori, pensionati, cittadini a sostenere il candidato sindaco Virginio Merola che, per storia personale, proposta programmatica e identità della coalizione che lo sostiene, rappresenta la figura di maggior vicinanza con le istanze e le aspettative del mondo del lavoro»), l'elite universitaria bolognese da Prodi ai 28 professori che hanno firmato un appello pro Merola, fino agli «Umarells», i pensionati che guardano i cantieri, un'istituzione goliardica ma nemmeno troppo.
Accomodante in apparenza, molto determinato quando gli si mettono di traverso, Merola deve il suo successo alla grande conoscenza della macchina del partito, e dei Palazzi del potere locale. Non è un renziano, anzi dell'attuale premier, quando era ancora il rottamatore che sfidava la vecchia ditta Pd, disse: «Renzi molto spesso assomiglia a qualcuno che vuol fare un golpe, non riesce a farlo ma vive di rendita sul messaggio che vuole fare il golpe». Segni particolari del suo mandato da sindaco: la pedonalizzazione del centro pedonale nel week-end (i «T-days»), la battaglia per il riconoscimento delle nozze gay all'estero e per l'acqua agli occupanti delle case. «Anche l'Italia deve riconoscere i matrimoni gay e il diritto delle coppie dello stesso sesso all'adozione, la strada è segnata», scandì dal palco del gay-pride.
Famose, anche, le sue gaffe. Una serie infinita. Ha augurato al Bologna di tornare in serie A, quando già era in serie A, salvo poi attribuire alla squadra solo uno scudetto quando invece ne ha vinti sette («Non so di calcio, non me ne intendo, questo ormai si è capito»).
Per un'intervista in radio con eloquio balbuziente e voce impastata è stato accusato di alzare troppo il gomito: lui ha risposto che non beve e che l'ultimo spinello se l'è fatto all'università. Ha persino fatto arrabbiare i suoi amati gay, con una battuta poco apprezzata: «I gay parlano tanto, come le donne». Tremonti voleva mandarlo a vendere i babà napoletani, invece è ancora lì, due volte sindaco.
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