Il famoso «incidente», temuto a Palazzo Chigi ma sognato da una fetta sempre più larga della maggioranza, non si materializzerà mercoledì nell'aula del Senato.
Tra raffazzonati compromessi sul testo della risoluzione e sconclusionati giri di parole del premier Conte quando parlerà in aula, sulla riforma del Mes si rappattumerà una maggioranza, sia pur risicata, e non si consumerà nessuna traumatica rottura. Tra i grillini, solo il disoccupato Di Battista e Davide Casaleggio, più ex ministri restati a piedi come Barbara Lezzi, cercano di agitare le acque facendo trapelare notizie di «mozioni alternative» a quella di maggioranza (che non dirà nulla) in preparazione. Per il resto dei parlamentari e soprattutto dei senatori pentastellati, il rischio di restare senza stipendio vale sicuramente più dei bislacchi pregiudizi anti-Mes e anti-Ue.
Dunque Conte mercoledì canterà vittoria, grazie anche alla (per lo più infondata) suspense creata attorno alla scadenza. Ma questo non vuol dire che il governo, dopo quel voto, navigherà in acque tranquille. É vero che Conte sta cercando di blindare attorno a sè quel tavolo da 200 miliardi in arrivo dall'Unione europea cui tutti sono ansiosi di sedersi, e che Mattarella continua a stendere la sua protettiva mano sul pettinatissimo capo del premier, ma la maggioranza ribolle di malumori sempre più incontenibili. A cominciare dal Pd, il cui segretario Zingaretti deve incassare l'umiliazione dell'ennesimo no del premier al Mes sanitario, invocato come irrinunciabile dai dem, ma troppo indigesto per i delicati stomaci grillini perché Conte abbia il coraggio di pronunciarne il nome. Bastava leggere ieri l'intervista a Repubblica del capogruppo Pd Delrio per percepire la crescente sfiducia verso l'azzimato ex leader dei progressisti mondiali che «non è eletto, ma indicato dalle forze politiche», gli ricorda con asprezza. Per poi avvertirlo che «non si governa per tirare a campare»; che «il governo non è un fine ma un mezzo», invitandolo ad uscire dalla palude delle decisioni rinviate perché «i nodi vanno risolti definitivamente, nei tempi e nei modi giusti. Altrimenti la fatica di questa alleanza si farà sentire». Delrio denuncia anche «lo scollamento preoccupante tra un paese che soffre e la narrazione rassicurante» del premier, e poi accusa: tra dpcm e decreti «approvati da una sola Camera» perché poi vengono blindati con la fiducia «si è creato un grave vulnus alla volontà popolare rappresentata dal Parlamento». Un requisitoria in piena regola contro Palazzo Chigi, che si unisce alle dure critiche che arrivano anche da Italia viva, che attraverso la ministra Teresa Bellanova minaccia di non votare «a scatola chiusa» le proposte che Conte porterà oggi in Consiglio dei ministri sul Recovery Plan. «Da una settimana chiediamo le carte per poter orientare la valutazione mia e del mio gruppo politico - racconta Bellanova - Non ho ricevuto neanche un rigo. Non si può sempre forzare oltre il consentito». Lo stesso Matteo Renzi non lesina messaggi bellicosi al premier: «Non ha capito che se va avanti così rischia di cambiare mestiere».
Certo, nessuno vuol lasciare le proprie impronte digitali su una crisi, tanto meno adesso tra legge finanziaria da fare e picchi epidemici.
Non a caso il Pd - per precostituirsi l'alibi - fa filtrare veline che indicano Renzi come il potenziale «assassino» del Conte 2, da lui stesso fatto partire. Ma dalla prossima primavera il premier dovrà guardarsi le spalle, e da ogni direzione.
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