Poco prima che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella uscisse allo scoperto per risolvere la crisi, da Palazzo Chigi si preoccupavano ancora dei retroscena. L'invito dello staff di Giuseppe Conte era sempre quello di non attribuire al premier uscente nessun tipo di «dichiarazioni o virgolettati che non rispettano il suo pensiero». Ma in quel momento la speranza di un Conte ter era già naufragata sotto i colpi di Matteo Renzi e dei veti su Alfonso Bonafede, Lucia Azzolina, Domenico Arcuri. In verità, a Chigi, pensavano già da un po' al futuro. Tanto che fino a lunedì, come riportato ieri dal Giornale, Conte era deciso a misurarsi con la prova delle urne. Solleticando la sua vanità, il cerchio magico dell'ormai ex presidente del Consiglio lo ha convinto da mesi di avere un consenso e una popolarità tali da sbancare tra gli elettori. «Conte considerava l'idea di andare a votare perché è chiaro che con un altro governo e un nuovo premier lui finirà nel dimenticatoio nel giro di un paio di mesi», puntualizza un grillino di rango vicino a Luigi Di Maio. La speranza, paradossalmente, era il voto. E anche i suoi nuovi consiglieri democristiani, tra cui Bruno Tabacci, ci avevano preso gusto a minacciare il voto. Infatti stavano già sondando il terreno del M5s spaccato per promettere candidature.
Ma il Quirinale ha spezzato l'incantesimo del Conte già in campagna elettorale. Mattarella nel suo discorso esclude categoricamente l'ipotesi di andare a elezioni in tempi brevi. Sarà «governo del Presidente». E Mario Draghi è stato convocato per oggi al Colle. Il peggiore degli scenari per Conte. Che, dopo mesi di protagonismo assoluto, tra dirette Facebook e dpcm, teme di finire nel dimenticatoio evocato dalla nostra fonte. La convocazione di Draghi, con cui si era creato un dualismo, non fa che aumentare l'amarezza. E però, d'altro canto, è impensabile che l'ex avvocato del popolo italiano se ne torni bellamente all'insegnamento universitario. D'altronde i segnali del varo di un progetto contiano ci sono tutti. Gianfranco Rotondi, democristiano che non ha mai nascosto simpatie per il giurista foggiano, qualche giorno fa è stato profetico. «Renzi può far fuori Conte dal governo, ma non fermarlo come leader politico», la considerazione di Rotondi. Lo stesso Rotondi che ora parla di accordi tra Renzi e Salvini per espugnare Palazzo Chigi. Bisogna soltanto vedere in che modo si dipanerà la leadership politica di Conte, anche alla luce di una probabile implosione del partito che lo ha indicato, il M5s.
Di sicuro la tela del partito personale partirà dai responsabili. E da quei nomi che circolavano negli scorsi giorni come ministri di fiducia dell'ex capo del governo. La cosiddetta «quota Conte». In questa quota ci sarebbe Mario Turco, attuale sottosegretario grillino, soprannominato «il trombettiere di Conte». Ma anche Lucia Azzolina e il super-commissario Domenico Arcuri. Due nomi «contiani» su cui si è attorcigliata la trattativa con i renziani nei tavoli paralleli di questi giorni. E dalla «quota Conte» al partito di Conte il passo può essere breve. Intanto il premier uscente continua a tessere la tela del suo partito personale. Che nascerebbe a partire dai responsabili, coinvolgendo ex M5s e personaggi della società civile. E non è un caso che ieri sui social circolasse una lettera «in sostegno al governo Conte».
Alcuni firmatari di spicco? Il politologi Gianfranco Pasquino e Nadia Urbinati, il costituzionalista ed ex senatore Ds Massimo Villone, l'ex senatore dell'Italia dei Valori Pancho Pardi. Draghi sale al Colle e Conte è pronto a scendere in politica.[
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