Un tempo era un sogno, oggi è un fallimento strutturale, un'entità incapace di assumere persino le decisioni basilari per garantire la propria sopravvivenza. Ed il caso Brexit né è la dimostrazione più brutale.
A sei giorni da un voto inglese capace d'innescare un effetto domino in grado di demolirla dalle fondamenta l'Unione Europea non riesce ancora decidere una linea d'azione. E soprattutto non sa quale dei suoi organi istituzionali debba affrontare il problema dell'uscita del Regno Unito. A darsi battaglia sono la Commissione, l'istituzione chiamata a svolgere le funzioni di vero e proprio governo dell'Unione, ed il Consiglio d'Europa, l'organismo formato dai capi di Stato e governo dei 28 paesi membri. A rigor di logica tutto sembra deporre a favore delle competenze di quel Consiglio a cui l'Inghilterra deve, in base all'articolo 50, comunicare formalmente la propria imminente uscita di scena. Ma in Europa quel che sembra logico non sempre lo è.
Il Consiglio, pur esprimendo un «presidente» (Donald Tusk) a cui è riconosciuto un ruolo da Capo dello Stato, resta un'istituzione anomala. Un'istituzione non prevista nei trattati istitutivi della comunità e politicamente ambigua perché priva di qualsiasi controllo democratico sull'attività dei suoi membri, ovvero di 28 capi di governo la cui nomina dipende esclusivamente dai singoli stati. E a rendere ancora più limitate le competenze del Consiglio s'aggiunge quel Trattato di Lisbona che - pur riconoscendolo giuridicamente e istituzionalmente - si limita a conferirgli un potere d'indirizzo politico. Da questo punto di vista dunque affidare la gestione della Brexit al Consiglio d'Europa equivarrebbe, su scala italiana, ad affidare la gestione e il negoziato di un trattato internazionale alla Presidenza della Repubblica. Pensare di delegare la spinosa questione alla Commissione, ovvero al solo organo con poteri assimilabili a quelli di un governo, è al momento - ancor più impensabile. Il presidente della Commissione Jean Claude Juncker, durissimo nel minacciare gli inglesi escludendo, solo poche ore prima del voto, qualsiasi nuovo negoziato è considerato, infatti uno dei catalizzatori della Brexit. Per ora gli unici a contestarlo apertamente definendolo «non all'altezza del suo compito» e chiedendone le dimissioni sono il ministro degli Esteri cecoslovacco Lubomír Zaorálek e quello polacco Witold Waszczykowski.
Stando ai mormorii di Bruxelles anche Angela Merkel lavora, però, per metterlo alla porta. Non a caso Juncker, unico e vero capo di governo dell'Unione, non è nemmeno stato invitato al vertice di Berlino tra la Cancelliera, il presidente Francois Hollande e Matteo Renzi. Parimenti la proposta del Presidente della Commissione d'agire in tempi brevi contro Londra è stata subito contraddetta dalla Merkel contraria, a suo dire, a «pressioni immediate» sugli inglesi. Anche il vertice Merkel-Renzi-Hollande è però un simbolo dell'inazione e dell'anomalia europea. I triumvirati di Berlino - affetti da un grave deficit di rappresentatività - sono infatti ugualmente inadatti a decidere le sorti dell'Europa. Matteo Renzi, reduce da una dura batosta alle ultime elezioni comunali, è un premier non eletto privo, dunque, della più elementare legittimità democratica. Francois Hollande è, per contro, un presidente in dirittura d'arrivo destinato stando ai sondaggi sulle presidenziali del 2017 - a non vedere neppure l'anticamera dei ballottaggi. E la Merkel non sembra alla fine - messa molto meglio.
La ferrea austerità economica caldeggiata nel nome della stabilità e quell'accoglienza «senza limiti» responsabile dell'arrivo in Europa d'oltre un milione di rifugiati sono fra le principali ragioni del malcontento di milioni di euroscettici. E dell'ansia un Inghilterra che ha letto nei diktat della Cancelliera l'arroganza di un nuovo Reich.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.